La Sala delle carceri a Castel dell’Ovo si tinge di ‘eternità con la mostra di Domenico Sepe

La Sala delle carceri a Castel dell’Ovo si tinge di ‘eternità con la mostra di Domenico Sepe
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A cura di Sara Ramondino

La Sala delle carceri all’interno del Castel dell’Ovo ha ospitato dal 30 ottobre al 22 novembre una serie di opere dell’artista napoletano Domenico Sepe.La materia e l’eterno” è stato il titolo della mostra curata dalla museologa Daniela Marra. La scelta della location per l’esposizione delle sculture è stata frutto di un attento studio atto a garantire una sinergia tra il significato delle opere di Sepe e il luogo espositivo.

Per l’artista esiste uno stretto legame tra l’eternità e la materialità; infatti è possibile sperimentare il passare del tempo attraverso due tipologie di materia: la prima è quella rappresentata dal materiale ‘effimero’ dell’argilla cruda che tende a sgretolarsi perché non è cotta e quindi non resistente alle intemperie del tempo; il secondo è rappresentato – appunto – dal bronzo, il materiale ‘eterno’ per antonomasia, che richiede tempi maggiori di lavorazione e cottura, dunque per sua ‘natura’ resistente nel tempo rispetto alla prima.

La ‘fragilità’ dell’argilla cruda

La visita alla Sala delle carceri è iniziata proprio con alcune sculture di Sepe in argilla cruda, come il modello della“ Lilith”: il materiale ‘fragile’ con cui è stata formata raffigura proprio il lato più ‘umano’, la debolezza della carne piena di ferite.

“Lilith è la prima donna – ha illustrato Marra – ma non quella che si sottomette ad Adamo. Viene ‘cacciata via’ e giace per terra senza ali, perché le ha perse. Si costituisce come una sorta di femminino sacro martorizzato, addormentato e che vuole risvegliarsi, chissà, forse per vendicarsi? Non possiamo saperlo”.

La seconda argilla esposta è stato il modello di “Divino Segreto” posizionato all’interno della struttura della cella carceraria. Questa scultura è strettamente collegata con la Lilith, ovvero, con l’immagine di un donna ancora ‘rinchiusa’ e non alata. L’eternità e la libertà vengono in seguito recuperate dalla scultura successiva della figura femminile di bronzo, rappresentante una dea alata o un angelo.

La potenza del bronzo

“L’immagine sembra molto rievocare anche una Partenope – ha chiosato la curatrice della mostra in riferimento al bronzo femminile – che rifiuta nella parte inferiore la coda di pesce che l’è stata attribuita erroneamente per relegarla in un abisso. In verità questa è un essere celeste, un essere meridiano; è anche una psicopompa”, figura mitologica pagana che trascina le anime dei defunti nell’Aldilà. Sepe, però, ha preferito raffigurarla in tutta la sua volontà di potenza, “con uno sguardo enigmatico di ‘segreto’ – ha continuato Marra – che sembra voler interrogare gli altri e se stessa. C’è di sicuro un rimando allo specchio psicoanalitico junghian

Domenico Sepe è un artista/monumentalista che spazia in ogni ambito della sfera del sacro, partendo dal mito, fino a raggiungere il quotidiano. Infatti, un angolo della sala delle carceri è stato dedicato anche a un pannello che riproduce l’opera bronzea realizzata a Matera, quella della “Fontana dell’amore”, rappresentante una scena di vita quotidiana materese.

Con quest’opera Sepe ha reso omaggio alla tradizione di Matera secondo cui i ragazzi del posto un tempo si avvicinavano alla fontana mentre le giovani donne vi attingevano acqua in una particolare anfora chiamata rizzola. L’intento di questi era fare alle giovani delle richieste di matrimonio.

Chi osserva queste sculture non può non cogliere, inoltre, l’accuratezza di Sepe nel ritrarre il gesto ‘raffaellesco’ del giovane nell’intento di porgere delicatamente la rosa alla futura sposa. Per giunta Marra ha fatto notare anche l’attento e ricercato studio delle tradizioni popolari alla base della realizzazione della fontana; questo è reso evidente – per esempio – dall’abbigliamento del ragazzo con il cappello e le scarpe, indumenti maschili tipici di chi è in età da matrimonio; mentre l’altra statua di bronzo raffigurante il ragazzo più piccolo che guarda la scena, non indossa gli stessi accessori, proprio perché non ha ancora raggiunto l’età giusta per maritarsi.

Il “Cristo Rivelato”

Per quanto concerne lo spazio religioso del circuito de “La Materia e l’Eterno”, Sepe ha proposto un’emerita novità per la storia dell’arte con l’opera monumentale del “Cristo Rivelato”, un omaggio al “Cristo Velato” della Cappella Sansevero.

“Nell’iconografia classica – ha spiegato sempre Marra – sono ricorrenti il Cristo deposto e il Cristo trionfante. Sepe in questo caso ha proposto un’immagine che si trova a metà strada tra le due condizioni, quella del Cristo nel risveglio.

La prima cosa che mi è venuta in mente portando questa scultura in un contesto così sofferente come quello delle carceri è che questa sembra trasmettere un senso di speranza, appunto di risveglio a chi vive direttamente la triste esperienza del carcere.

Dalla accurata descrizione della museologa è emerso che ci si è trovati di fronte a un Cristo molto umano, più che ‘divino’. L’unico elemento religioso della statua è il velo che ricopre il corpo, che sta a simboleggiare il dogma, poiché nelle Sacre Scritture non si parla del momento del risveglio ma si narra soltanto di Maria e della Maddalena che piangono e all’improvviso nel cielo si sente un fragore con il tuono. La parte più umana del Cristo è infatti non quella coperta dal velo ma quella scoperta, in rappresentanza della sofferenza e del pathos dell’uomo.

Il panneggio del velo che si fonde con la carne è, invece, una chiara riproduzione fedele dell’opera di Sanmartino, così come desiderò che si realizzasse il Principe di Sansevero. Anche la tecnica della patinatura del bronzo rappresenta un ulteriore elemento di ingegno da parte dell’artista nel voler conferire alla scultura un’eco di antichità ed eternità.

L’idea di omaggiare il “Cristo Velato” – da quanto desunto dalla spiegazione di Marra – è nata in un periodo particolare della vita di Sepe in cui portò degli alunni a fare una gita alla Cappella Sansevero e molti di questi, vedendo la scultura, si commossero.

La ‘lotta’ amorosa tra Apollo e la Sibilla Cumana

Dopo la strabiliante parentesi cristologica la visita è proseguita con la figura pagana della “Sibilla Cumana”, un’altra scultura reinterpretata in chiave moderna e contemporanea perché la Sibilla è nel suo aspetto verginale anziché di vegliarda.

“È una scultura anche narrativa – sempre Marra – dal momento che compare una mano che vuole in tutti i modi afferrare la Sibilla ma non riesce. La mano raffigurata è quella di Apollo che vuole farla sua ma la Sibilla non vi cederà; chiederà l’eternità ma non l’eterna giovinezza; e a motivo di questa ‘dimenticanza’ nel tempo si consumerà fino a ridursi a pura voce e nulla più”.

“Napoli Rivelata” e “Napoli Velata”

La penultima opera in bronzo esposta è stata “Napoli Rivelata” – in coppia con la “Napoli Velata”, un’altra scultura di Sepe non presente a questa mostra ma collegata alla prima e raffigurante una donna con il velo che guarda il cielo con un senso di speranza, come se Napoli fosse una donna seducente, attraente con addosso un velo, piena di stratificazioni.

“Quando si strappano violentemente questi veli – ha proseguito Marra – Napoli restituisce la parte più dolorosa, feroce e agghiacciante; Napoli Rivelata è appunto raffigurata da una vecchia con le rughe e che prova un forte dolore, quasi si stringe il petto, rievocando un po’ anche quelle figure doloranti secentesche arcigne del Giordano”.

Omaggio al ‘padrino’ della mostra, Vincenzo Gemito

Il ciclo di sculture si è concluso con l’esposizione del busto bronzeo del filosofo e scultore napoletano Vincenzo Gemito, figura artistica purtroppo poco conosciuta ma pur sempre fondamentale nel panorama artistico di Napoli. Sepe a questo proposito ha voluto omaggiarlo e conferirgli un’aurea di ‘eternità’ attraverso il bronzo, dal momento che per l’artista è stato un grande punto di riferimento durante la sua formazione artistica ed intellettuale; non a caso Sepe si definisce anche un ‘gemitiano’.

L’importanza di Gemito è in special modo legata al rapporto che Napoli e Parigi hanno intessuto durante la metà del Settecento. Si racconta infatti che Gemito sia stato uno tra i primi artisti italiani ad essersi trasferito a Parigi e a portarvi la Scuola napoletana, di cui Sepe si sente un continuatore.

Con “La Materia e l’Eterno” per la città di Napoli ancora una volta si è presentata l’opportunità di riscattarsi, di narrare una parte del proprio patrimonio artistico e culturale, grazie ai suoi ‘pionieri’ dell’arte – come Domenico Sepe, il ‘poeta del bronzo’ – che gli conferiscono sempre più un’aurea di bellezza, di ricerca di senso e di eternità.

Napoli viene raccontata dall’artista in tutta la sua essenza sublime, in tutto il suo carattere picaresco, in tutta la sua spiritualità che oscilla tra il sacro e il profano in modo mai banale ma sempre ricco di autenticità, stupore e vivacità folkloristica.

di PC

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