I CRIMINI IN FAMIGLIA: la convivenza forzata “come fattore scatenante”

I CRIMINI IN FAMIGLIA: la convivenza forzata “come fattore scatenante”
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A cura della Dott.ssa Letizia Di Lauro – Criminologa

La violenza contro le donne sappiamo avere mille facce diverse, i comportamenti lesivi maturano nella maggior parte dei casi in contesti di relazioni affettive, in famiglia ovvero il primo luogo di socializzazione, dove si coltivano gli affetti, in cui l’amore è, dovrebbe essere, il sentimento che lo domina. Come si spiega allora che proprio questo luogo diventi teatro di violenze?

Una costante in tutti i casi di violenza domestica che mi sono stati sottoposti è la difficoltà a far emergere tali comportamenti, a mostrarli all’esterno delle mura in cui cresce silente, a causa proprio del legame che unisce la vittima e il carnefice considerati da loro stessi e dalla società pertinenti alla sfera intima, alla privacy del rapporto di tipo familiare.

Le risposte che mi vengono spesso date sono infatti: “i panni sporchi si lavano in famiglia” e “non posso mettere in imbarazzo la famiglia”.  Se guardiamo alla costruzione delle società umane, vediamo che la vita degli esseri umani che la vivono si organizza attraverso le relazioni, queste hanno un valore tale da condizionarla; per poter capire i crimini in famiglia è utile allora guardare alle relazioni che hanno diretto e guidano l’atteggiamento del singolo all’interno del proprio nucleo familiare di provenienza e all’esterno di esso.

Durante questo ultimo anno trascorso, costretti da un lockdown forzato, i problemi all’interno delle famiglie sono esplosi quasi come una bomba ad orologeria, ma vi è stata una ancora maggiore difficoltà a chiedere aiuto proprio per le restrizioni a cui la popolazione è stata obbligata.

Le statistiche dell’EURES

Secondo l’EURES circa il 49,5% degli omicidi volontari in Italia avviene in famiglia, di questo il 67% è costituito da donne, si può affermare senza esitazione alcuna che l’ambito privilegiato è quello familiare, il centro e il sud della penisola vedono un aumento degli omicidi in famiglia rispettivamente del ­­+7,1% e +14% con un indice di rischio più alto al sud.

Un altro dato allarmante proviene dalle relazioni genitori/figli che vede nel 2018 un aumento al 47,6% dei figli uccisi rispetto al 2017, ovvero 31 figli uccisi dai genitori nell’anno 2018 rispetto ai 21 dell’anno precedente; l’arma più utilizzata è emerso essere da fuoco, detenuta legalmente nel 65% dei casi, rappresentando lo strumento principale nei casi di figlicidi.

All’origine dei conflitti in famiglia

All’origine dei conflitti in famiglia, può sembrare quasi paradossale, vi è la presenza di persone di sesso diverso, questo infatti presuppone un accordo consensuale sulla definizione dei ruoli in seno ad essa. La maggioranza degli episodi di violenza sulle donne deriva da una convinzione distorta del ruolo di esse che hanno i mariti/partner, questi infatti le reputano soggetti senza alcun diritto, che devono sottostare alle volontà loro. Ne consegue che in un’epoca come quella attuale, di grande emancipazione socio-culturale, il conflitto è dietro l’angolo.

Altra componente che apre la strada alla violenza familiare, e in questo periodo di chiusura è stata fondamentale, è la troppa vicinanza fisica; i congiunti ovviamente vivono in spazi ristretti, che ad oggi sono percepiti ancora più soffocanti dalle costrizioni imposte dal Governo, e ciò determina un comportamento di vera e propria salvaguardia del proprio spazio fisico, come ci insegna la prossemica. Nel 2020 sempre secondo l’EURES, l’incidenza nel contesto familiare dei femminicidi nella coppia raggiunge il 69,1%, confermando che nell’ambito relazionale quello della coppia è il più a rischio per le donne, con gli uomini quasi sempre autori degli omicidi.

 Nelle statistiche a disposizione emerge che nel 2020, la metà dei femminicidi in coppia è stato preceduto da molteplici episodi di maltrattamenti (si intendono episodi denunciati, o comunque già noti); i dati dell’EURES dei primi dieci mesi del 2020, mostrano che i femminicidi sono avvenuti al culmine di una serie di violenze che rientrano nelle macrocategorie più frequenti quali violenze piscologiche, fisiche e sessuali. Soffermandoci sul profilo degli autori di maltrattamenti, i dati rilevati dicono che nell’anno appena trascorso, nel solo trimestre marzo-giugno su 26 donne uccise in famiglia 21 convivevano con il loro assassino.

 Quest’ultimo si è osservato, che otto volte su dieci è di età compresa tra i 25 e 44 anni; il movente prevalente è il possesso, che i media preferiscono definire passionale, successivo alla decisione della donna di troncare la relazione. Questa tipologia di omicidi di possesso, hanno generalmente una lunga incubazione, durante la quale la carica di aggressività dell’omicida si autoalimenta in una complessa ordinarietà che raggiunge il culmine nell’azione omicidiaria nei confronti della partner o ex, conseguente ad eventi che assumono un valore simbolico che vanno a rafforzare l’intento criminoso, come appunto possono essere una richiesta di separazione o le diatribe sui tempi di affidamento dei figli.

Nella relazione di coppia perciò, la convivenza forzata diventa fattore scatenante l’aggressione. Lo stato emotivo di angoscia che emerge frequentemente dai colloqui, anticipa una rappresentazione complessa di autoaccuse con cui si giustificano e giustificano le azioni dei compagni di sovente le vittime di abusi domestici.

Gli abusi di questo tipo, come è stato detto in precedenza non si manifestano da un giorno all’altro, ma principiano in maniera latente, scavando nel tempo una sorta di tunnel del dolore nell’animo della vittima, una caratteristica questa che rende molto più subdola tale tipologia di violenza rispetto ad altre di altro genere. Il partner, che ha enorme capacità manipolatoria, intercetta nella convivente una autostima instabile e inizia una sistematica distruzione di essa, per proseguire con un lento isolamento della donna dalla famiglia di origine, dalle amicizie precedenti, fino all’allontanamento dalla comunità esterna.

E’ un graduale distacco, per non destare sospetto agli occhi degli estranei al nucleo coppia-famiglia, fino al momento in cui alle violenze si aggiungono le umiliazioni, e poi minacce in più occasioni fino a diventare continue durante l’arco della giornata, ed è allora che ormai la vittima di questo bruto si ritrova sola con le sue fragilità e così insicura da dubitare anche del suo istinto che le suggerisce di scappare, convincendosi di essere la causa scatenante delle ire del suo uomo e dandosi la colpa di tutto ciò che le sta accadendo.

Inizialmente la vittima non comprende, perché in effetti non è davvero possibile concepire certi meccanismi da una mente strutturata, ma durante tutto il lasso di tempo che ella è rinchiusa provando a ragionare sui fatti che le sono accaduti, il partner manipolatore ne approfitta per continuare a maltrattarla, convincendola che lei è d’accordo e che è la responsabile se egli si comporta in un certo modo o dice certe cose; e così, in quel preciso momento l’uomo ha la certezza di aver ormai in pugno quella donna, ella riconoscerà la sua colpa e resterà in quella prigione che è la casa coniugale.

Uscire da un incubo simile per una vittima non è semplice, ella si trova ad essere ferita nel profondo dell’amor proprio prima ancora che nel fisico, si sente giudicata e deve affrontare lo stigma di una comunità che le ricorda quotidianamente di aver sciolto un legame considerato sacro e inscindibile; è per questo che una vittima di abusi domestici necessita di tutto il supporto che gli operatori dell’antiviolenza e della giustizia possono e devono darle, indirizzandola verso un percorso di ricostruzione dell’autostima che le darà la forza necessaria per ricominciare a respirare liberamente ed a camminare a testa alta lasciandosi scivolare da dosso quegli sguardi inopportuni che un tempo la facevano sentire diversa e inadeguata.

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di Pasquale Crespa

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