Tutto è fiume, tutto è carne

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Visione intima e insanguinata della letteratura sudamericana

di Daniela Marra

“Scrivere è evocare i morti. E poi baciarli sulla bocca.”
 voce senza nome, persa nella giungla, ritrovata in sogno

C’è un luogo dove il tempo si piega, si contorce, si insinua come un serpente caldo tra le pieghe della pelle. Sudamerica, terra di sudore e polvere, di fiumi che straripano e di deserti che bruciano, è un corpo pulsante, una carne viva che sanguina parole. Qui il reale non basta: è troppo secco, troppo semplice per contenere la furia dei sogni, la voragine dei ricordi, il desiderio che si fa rabbia e languore.

Nel Novecento, Gabriel García Márquez ci consegnò Macondo, una placenta primordiale dove ogni respiro è un incantesimo, dove la magia non è trucco ma linfa, la pelle stessa che si stropiccia contro l’infinito. Macondo è un grembo di storie incatenate, dove il sangue dei Buendía scorre in vene invisibili, portando con sé un sapere antico, un canto che è carne e ossa, una maledizione e una carezza. La letteratura sudamericana non si legge, si attraversa come un corpo steso sull’altare, come una mappa ancestrale disegnata con sangue e saliva, come un fiume che sa tutto di noi prima ancora che ci immergiamo.

È visione che prende forma dalla carne, incubo che accarezza e morde, sogno che sa di sudore e miracolo. Qui ogni parola nasce dalla terra, una terra viva, febbrile, gravida di antenati e spiriti affamati, e si solleva in un canto che non ha bisogno di armonia, ma di verità.

Macondo non fu mai solo un luogo: fu placenta, ombra, profezia, una città sepolta nel nostro midollo, partorita da Márquez come si partorisce un dio antico con cento occhi e nessuna pietà. I Buendía non vivono: si reincarnano, si rincorrono, si dimenticano e poi si ricordano a forza di amore incestuoso e piogge di farfalle gialle. Rulfo li ascolta da sottoterra: nel suo Pedro Páramo sono i morti che parlano, le ossa che sussurrano, i peccati che non evaporano ma sedimentano sotto la lingua.

E poi Elena Garro, che non descrive ma evoca, strega che danza con le voci precolombiane e ne fa canto, rito, silenzio. Le sue donne sono nuvole che sanno soffrire, le sue parole, erbe medicinali e velenose insieme. Ha scritto il sogno quando il sogno era ancora proibito.

Nei suoi racconti, le donne sono potere, abbandono, incanto.  Ma era Carlos Fuentes che tesseva storie come fili di carne intrecciati a immagini e follie, un caleidoscopio che spalancava la bocca della storia messicana e ne lasciava uscire un urlo, feroce e dolce.  Poi qualcosa si rompe. Il mito si sbriciola, la magia comincia a sanguinare, le preghiere diventano urla, il realismo magico muta come pelle in una notte senza luna, lasciando la strada a una scrittura più nuda, più aspra.

È arrivato Roberto Bolaño e ha preso tutto quel sogno e l’ha bruciato nel deserto. Niente più incantesimi. Solo la fame, la perdita, i poeti falliti e i corpi smembrati, sepolti sotto sabbia e silenzio. Ma anche questo è Sudamerica: non il tramonto della magia, ma la sua mutazione. La magia che cambia pelle, che diventa sangue rappreso, trauma mai digerito, memoria che non si lascia spegnere.

Con Bolaño, il miracolo si spezza, la parola si fa taglio, cronaca, sfinimento. I poeti non sono più profeti, ma sopravvissuti. La letteratura si denuda, si stanca, non promette nulla se non l’eco dei fallimenti. Roberto Bolaño arriva con i suoi corpi stanchi, segnati da veleni e disillusioni, con le anime scorticate e gli sguardi che bruciano il deserto. Niente incantesimi, solo la polvere che si attacca alla pelle, la fatica di respirare in un’aria greve di promesse tradite e sogni infranti.

Ma da quella polvere una voce risorge, ed è femmina, sanguinante, deforme, sensuale. Mariana Enríquez, con le sue madri assassine e i quartieri infestati, ci consegna la paura come destino. Fernanda Melchor graffia con parole che urlano nei vicoli, mentre Samanta Schweblin ci immerge in sogni tossici dove i corpi si liquefanno e la realtà è un veleno lento. Selva Almada scrive con la polvere nelle narici e la violenza nella nuca. Gabriela Cabezón Cámara infila la letteratura in una bocca piena di insulti e redenzione. Carla Madeira, in Tudo é rio, ci prende e ci annega.

Ci dice che l’amore è un’alluvione che scortica, che la memoria è una bestia che torna sempre a mordere, che la carne desidera anche quando è spezzata. In quel romanzo il fiume è sesso, vendetta, perdono, perdita: un dio muto che decide senza spiegare, carne liquida che scorre e si frange in rivoli di memoria e sangue: la carne non dimentica, ma si fa ferita e desiderio, corpo che reclama la propria storia scolpita in vene pulsanti.

E poi Amparo Davila, che scrive con la saliva e l’inchiostro, con i sogni che si fanno carne viva. I suoi racconti sono confessioni sdraiate nel fango, brividi nella schiena, madri che non sanno amare e santi che odorano di piscio e miracolo. In lei c’è la fame, c’è l’ossessione, c’è il corpo che urla nel sonno. C’è il Sudamerica intero: impuro, malato, meraviglioso.

Perché in questa letteratura nulla è separato: lo spirito ha i denti, la carne ha la memoria, il dolore ha voce, la morte ha una pelle da accarezzare. È una scrittura che ci costringe a guardare quello che non vogliamo: le nostre viscere, i nostri fantasmi, le madri che abbiamo sepolto troppo in fretta. Ma soprattutto, è una lingua che non consola.

Che ci sporca, ci seduce, ci scuote. Perché il Sudamerica non è un luogo, ma un battito: è una casa che sanguina, un letto sfatto di storia e febbre, una bocca piena di fuoco e miele. E leggere questi autori, oggi, non è un atto culturale: è una resurrezione. È scegliere di camminare a piedi nudi su una terra ancora calda di dolore, di gioia, di giustizia sospesa. È lasciare che ci tocchi dove siamo più fragili, dove non c’è pelle, dove ancora bruciamo.

È rendersi disponibili all’estasi e alla rovina. È attraversare il fiume, senza sapere se ne usciremo interi. Ma è anche questo, forse, che la letteratura dovrebbe fare: non insegnare, non spiegare, ma aprire. Aprire le vene. Aprire il sogno. Aprire il corpo alla visione.

Perché sì, tutto è fiume. Tutto è carne. E noi, quando leggiamo, quando davvero leggiamo, diventiamo acqua e sangue, visione e desiderio. E scrivere — come ci ha detto quella voce senza nome, perduta nella giungla e ritrovata in sogno — è evocare i morti. E poi baciarli sulla bocca.

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