Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera a Maria Rosaria Selo, autrice di “Pucundria” Marotta&Cafiero edizioni

In questa rubrica Daniela Marra raccoglie lettere nate da letture che hanno lasciato un’impronta profonda. Libri che conducono altrove, parole che hanno saputo accendere uno sguardo, muovere un passo. Qui, chi legge non recensisce: racconta il suo attraversamento, e affida alla parola scritta il gesto antico della gratitudine.
Una voce per te
di Daniela Marra
Mia cara Maria Rosaria,
c’è un’ora della sera, in certe giornate umide e disorientate, in cui le parole ci tornano addosso come onde, e non si può che scrivere. È quell’ora in cui la luce cade molle sui tetti, in cui la malinconia si fa cosa viva, presenza tangibile tra le dita, e io penso che sia proprio questa l’ora della pucundria. Non come rimpianto o noia, ma come sentimento pieno e antico, come fremito senza voce, come un canto basso che risuona tra i muri delle anime e delle case. Ed è lì, in quell’ora sospesa, che il tuo libro mi ha trovata.
Per giorni ho camminato dentro l’inchiostro di “Pucundria” come in un sogno lucido, o in un dolore antico che non si vuole dimenticare. Le tue parole mi hanno presa per mano e portata in una Pozzuoli che pulsa di bellezza e brividi tellurici, città-madre e città-ferita, ventre e memoria. Lì, dove la terra si muove, si spacca, si innalza e sprofonda, tu hai scavato ancora più a fondo, fino a toccare il sottosuolo dell’anima.
“Pucundria” non è solo un titolo, è uno stato dell’essere. Un languore esistenziale, un’increspatura del cuore che non guarisce mai del tutto. Hai avuto il coraggio – e la grazia – di prendere questa parola, così meridionale, così intima, e di farne la voce narrante di un romanzo che è insieme denuncia e carezza, furore e perdono.
Le tue pagine sono stanze senza pareti, dove il dolore femminile entra ed esce, come un vento che trascina con sé nomi, volti, storie.
Anna con la schiena curva come se portasse un masso tra le scapole, corpo femminile ferito, ma non vinto. Un corpo che crea profumi quasi stesse ricamando pezzi d’invisibile. Come se volesse, attraverso l’olfatto, riscrivere il proprio destino. E Teresa con il peso di chi è costretto a indossare ogni giorno una maschera di controllo, mentre dentro si agitano dolori antichi e silenzi che bruciano.
Due donne che non sono solo le due protagoniste: sono archetipi, sono sorelle, madri, figlie. Donne che non si arrendono alla narrazione dominante della colpa, della vergogna, della rassegnazione. Che resistono. Che si sfiorano con lo sguardo quando le parole mancano, e che trovano nella solidarietà silenziosa una nuova grammatica dell’umano.
Non posso non citare Alice, Oprah, Eduardo, Mariangela: figure che arricchiscono il tuo coro narrativo e fanno di “Pucundria” non solo un romanzo sull’intimità femminile, ma un’opera corale, umana, sociale. Ogni personaggio che ci doni sembra portare con sé una domanda: Cosa resta di noi dopo il dolore?
E tu, silenziosamente, attraverso le loro scelte, i loro errori, le loro rinascite, ci suggerisci che resta la possibilità. Resta il gesto piccolo che salva, il profumo che nasce dal fango, la parola che cuce. Tu, Maria Rosaria, sei l’eco che unisce tutte queste storie e le restituisce a noi, lettori, in forma di dono.
Sento ancora sulla pelle l’umidità dei corridoi del carcere di Pozzuoli, il profumo denso e pieno di Anna, la voce trattenuta di Teresa, la lava sotterranea della tua città e delle tue parole. Come se, leggendo, fossi stata presa da una lenta febbre del sud, un’inquietudine struggente, che ha un nome bellissimo e intraducibile: pucundria.
Hai trasformato questo sentimento sfuggente e intimo in un corpo narrativo che respira, soffre, ama.
In ogni tua frase si avverte la tua presenza: non solo come scrittrice, ma come testimone. Tu c’eri, Maria Rosaria, nel carcere che ora non esiste più, c’eri nelle stanze in cui Anna creava profumi come fossero preghiere distillate, c’eri accanto a Teresa, mentre cercava di capire se si può ancora amare, dopo essere state spezzate. E c’eri a Pozzuoli, che non è solo luogo ma personaggio vivo, palcoscenico viscerale, con le sue luci tremolanti e il suo respiro vulcanico. Madre e matrigna. Terra che accoglie e scuote, che nutre e distrugge. Del resto come scrivi: Pozzuoli è così. Rende tutto splendido perché ha il bello incarnato nella terra.
Ed è proprio questa bellezza stratificata, brontolante, quasi mitologica, che aleggia su tutto il romanzo. La terra è creatura viva che parla, piange, protegge e tradisce. Quella terra che hai dovuto lasciare, che ha chiuso le porte del carcere femminile, ma che tu hai riaperto con l’inchiostro, trasformando le sue macerie in poesia.
E mi pare di vedere la Ortese, quando parlava di Napoli come di una città piena di spiriti, dove i vivi e i morti si tengono compagnia. Pozzuoli, nella tua scrittura, brilla e si spacca, accoglie e respinge, come una donna bellissima che non sa più se odiare o amare la propria sorte.
Hai scritto un libro che è insieme atto politico e rito ancestrale. Hai dato dignità narrativa a chi è ai margini e bellezza, a ciò che la società considera scarto. Hai toccato, senza retorica, temi laceranti come la violenza, il lutto, la genitorialità disfunzionale, il razzismo sottile, l’amicizia come unica salvezza. E l’hai fatto con una lingua viva, stratificata, che sa essere cruda come la realtà e dolce come un canto.
C’è una frase, tra le tante che mi porto dentro: Il lutto è l’amore che non sa più dove andare. Quanta verità, quanta disperazione e insieme quanta speranza in queste parole. In fondo, “Pucundria” è anche questo: una mappa per non perdersi nel dolore, una lente per riconoscere la bellezza anche nelle rovine.
Tu non racconti la pena, Maria Rosaria. Tu la scolpisci. Le tue donne non piangono, vivono con le ossa rotte e i piedi nudi. Sopravvivono a sé stesse, si annusano, si intuiscono. E da questo contatto nasce il gesto più rivoluzionario: la solidarietà. Anna sa creare profumi, fragranze che non si limitano a sedurre, ma che raccontano la storia di chi li ha composti. E sarà proprio il profumo a salvarla. Il profumo che nasce dal buio, che è vendetta gentile e resurrezione, che attraversa le sbarre, che s’insinua nella pelle della città e della gente.
Come Serao, anche tu non hai paura del dolore, ma lo racconti senza compiacimenti, con uno sguardo femminile che non si limita ad osservare: accoglie, contiene, trasforma. E così, come accade nei romanzi che durano nel tempo, il tuo si stacca dalla pagina e si deposita dentro il lettore, come una febbre leggera che non si dimentica.
E oggi che quel carcere non esiste più, inghiottito dal bradisismo e dall’indifferenza, il tuo romanzo resta. Resiste. È testimonianza, poesia civile, balsamo. È la voce delle centocinquanta donne che lì dentro hanno vissuto, amato, sbagliato. Tu non le hai lasciate sole. Le hai portate con te, nelle pagine, nelle parole, nel tuo stesso sangue.
Continua a scrivere, Maria Rosaria, con questa voce piena di carne, con questo sguardo che non giudica ma comprende. In un tempo che si ostina a zittire le voci femminili, la tua è necessaria. Perché ci ricorda che la letteratura non serve solo a raccontare: serve a trasformare. Continua a dirci che si può essere fragili e ancora degne, ancora madri, ancora vive.
Con amore,
Daniela
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