Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera a Lidia Yuknavitch, autrice di “La cronologia dell’acqua” Nottetempo edizioni

Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera a Lidia Yuknavitch, autrice di “La cronologia dell’acqua” Nottetempo edizioni
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In questa rubrica Daniela Marra raccoglie lettere nate da letture che hanno lasciato un’impronta profonda. Libri che conducono altrove, parole che hanno saputo accendere uno sguardo, muovere un passo. Qui, chi legge non recensisce: racconta il suo attraversamento, e affida alla parola scritta il gesto antico della gratitudine.


Per vivere. Per ricordare. Per scrivere.


di Daniela Marra

Cara Lidia,

ti scrivo da una stanza piena d’acqua. Non è metafora, almeno non del tutto: ci sono giorni in cui certi libri mi fanno sudare come un corpo vivo, e questo tuo La cronologia dell’acqua è uno di quelli. È qui con me per la terza volta, e ogni rilettura è un’inondazione che mi costringe a ricostruirmi dopo, come dopo certi pianti veri, quelli che ti fanno tremare il labbro e tacere i pensieri. E ogni volta mi accorgo che quel flusso narrativo non è mai lo stesso, perché ogni volta il mio corpo ne viene ferito in modo diverso.

E guarito, in modo diverso. In queste pagine si soffre con te, ma soprattutto si cammina con te. Si galleggia, si affonda, si risale. E si nuota, perché non resta altro da fare. “La bambina che nuota” diventa la donna che scrive, e ogni bracciata è una frase che cerca il fondo. E ogni frase, una nuova nascita.

 Ti scrivo come si sussurra a un fiume: in ascolto e tremando un poco. Ho letto il tuo libro come si legge un antico codice sopravvissuto a una catastrofe, con la sensazione continua che, tra le pieghe di ogni frase, scorra qualcosa di più vasto e terribile di quanto possa contenere la carta, qualcosa che non appartiene alla letteratura, ma all’umano nella sua nudità più arida e vera.

Mentre leggevo mi sentivo spettatrice di un’esondazione interiore, di quelle che non si annunciano, che arrivano nella notte e cambiano il paesaggio, costringendo chi resta a ricostruirsi un senso, o almeno un rifugio. Con te è come camminare sull’orlo di un abisso e poi scoprire che anche il vuoto ha voce, e se si impara a riconoscerla può diventare canto. Le pagine che hai scritto non chiedono permesso: entrano, si siedono accanto al lettore e cominciano a raccontare una storia che è, per assurdo, più nostra che tua. Perché ciò che si è spezzato dentro di te, quella non-vita odorosa di morte e poi risorta come un corpo che impara a respirare da sé, ha la forza di farsi carne comune, dolore condiviso, possibilità di salvezza.

Le tue parole non sembrano essere nate da mani umane. Semmai da un’onda lunga, da un’alluvione interiore. La tua voce è un fiume che ha abbattuto gli argini, e il lettore — povero lui — può solo decidere se lasciarsi travolgere o nuotare a fianco di chi, come te, ha imparato a respirare sott’acqua. Ma non è un gesto di disperazione. È un atto di speranza inaudita: sperare che la forma che può salvare una, possa salvare anche altri. E così accade. Le parole sono il tuo nuoto ora.

Si sente. Galleggiano in un equilibrio precario, che somiglia all’arte più autentica, quella che non pretende nulla se non di essere vera. Ti sei fatta parola. E in questo, io credo, risiede la sacralità del tuo memoir: non tanto nel raccontare cosa sia accaduto, ma nel modo in cui la narrazione diventa respiro, pelle, ossa. Un memoir che non chiede permesso alla grammatica, né al pudore.

Corre, trascina con sé rami spezzati, oggetti dimenticati, creature ferite. Si apre come una sorgente sotto terra, silenziosa e invisibile, e poi cresce, mormora, grida, si contorce. Dentro, si avvertono gli affluenti, le vene parallele: il dolore dell’infanzia, il trauma, la perdita, ma anche il desiderio, la rivolta, la tensione a un’altra possibilità. La cronologia dell’acqua è una mappa idrografica dell’anima, e tu sei riuscita a disegnarla con mani ferite maferme. Si sente che vieni da un tempo non lineare, da un’infanzia che somiglia a una stanza chiusa da cui sei uscita graffiando i muri con le unghie. Eppure non c’è odio nel tuo dire. Non c’è vendetta. Hai scelto di non gridare ma di scavare. Scrivi come chi ha imparato a osservare il buio finché non si rivela una crepa di luce.

C’è qualcosa di antico in te, di rituale, il tuo è un dolore che conosce il rito, che lo celebra pagina dopo pagina, per renderlo abitabile. Come una casa costruita sulla faglia, ma che resiste. Ho visto la bambina che nuota per salvarsi, e il padre che urla e divora, e la madre che sparisce dietro il velo della sua infelicità. Ho sentito la solitudine nella casa allagata dai silenzi, e l’acqua come unico abbraccio non ostile. Tu nuoti come si prega: a occhi aperti, senza voce, in cerca di una forma di ascolto.

Eppure, come ogni fiume che attraversa terre ostili, la tua storia èanche una storia di contaminazione: l’infanzia violata, la giovinezza sbandata, i corpi usati per sentirsi vivi o, al contrario, per scomparire.Il tuo libro — chiamarlo solo libro è riduttivo — non ha trama perché ha pelle. E sotto la pelle, nervi. E sotto i nervi, storie. Una genealogia ferita, una geografia di corpi e assenze, dove i genitori sono fantasmi e la figlia è un animale selvatico che impara a camminare con le ginocchia sbucciate. Ma poi, miracolosamente, si rialza. Non senza ferite, non senza ricordi.

Ma con un linguaggio. E il linguaggio, quando lo si trova, è una seconda nascita. È anche il racconto di un corpo che resiste, pure quando tutto spinge verso il naufragio. E mentre si legge, si capisce che è proprio quel corpo, il corpo della donna, della figlia, dell’amante, della madre mancata e ritrovata, a essere il vero campo di battaglia e di rinascita. Con un linguaggio spezzato, come la vita che racconti, che nella propria frammentarietà pulsa di verità. E tra quelle pagine, che odorano di cloro, di lacrime e di sangue, affiora a poco a poco la forza di un gesto antico, il gesto di chi, pur stremato, sceglie la parola invece del silenzio. Scrivere diventa respirare sott’acqua.

Gesto disperato e lucido di chi ha capito che solo dando forma al dolore si può tornare a vivere. Ed è lì che il libro, pur restando tuo, indelebilmente tuo, diventa anche nostro. Perché invita a entrare in contatto con le proprie di ferite, con i propri pozzi, le nostre madri assenti, i padri inquieti, i nostri modi sbagliati di salvarci. E non è poco, Lidia. Anzi: è letteratura.

Hai fatto della tua storia, con tutte le sue fratture, un paesaggio spoglio e verissimo, dove chi legge può riconoscersi anche quando ha vissuto vite lontane. Perché tu racconti le ossa, non gli abiti. Non il decorso, ma la malattia. Non l’apparenza della ferita, ma la sua profondità invisibile. Quel padre rabbioso e abusante, quella madre perduta in una tristezza irreparabile, quella sorella che se ne va lasciandoti sola nell’arena… E poi tu, bambina muta, aggrappata all’acqua come a un utero possibile. Quella piscina che diventa grembo e bara insieme. E l’allenatore che non guarda. Il corpo che si allena e poi si disfa. La fuga che somiglia più a una condanna che a una liberazione.

Eppure, anche nei momenti più neri, quando ti butti fuori dal college, quando bevi, ti droghi, scavi nel sesso un senso che non arriva mai, perdi tre figli e poi un’altra vita, già formata dentro te, anche in quegli abissi, la tua scrittura non è mai cieca. È una scrittura che sa vedere. Non si concede al melodramma, ma nemmeno alla compostezza letteraria. È, invece, un gesto disperato e sapiente: un grido ordinato in forma di frase. Un caos che trova, a forza di resistenza, la propria forma. Ho ammirato il momento in cui racconti dell’incontro con la scrittura. Con Ken Kesey, con il racconto che da ragazza ti fa vincere un premio, con la lingua che torna a offrirti un destino.

Da lì comincia il tuo ritorno. Ma non c’è trionfo. C’è umiltà. C’è lavoro. C’è studio. C’è la scoperta che si può essere madre, donna, insegnante, scrittrice senza dover rinunciare a ciò che si è stati. Senza coprire le cicatrici. Ed è questo, forse, ciò che più mi ha commossa: la possibilità che nel dolore non ci sia solo la fine, ma anche un seme di senso, una forza minuscola che, se coltivata, può fiorire in qualcosa di condivisibile.

 Hai raccontato ciò che non si dice. Le perdite, le dipendenze, la vergogna, i tre aborti, la bambina mai nata. E lo hai fatto con un pudore feroce. Con uno stile che non cerca lo scandalo, ma la verità. E, leggendo, mi sono detta che forse è proprio questa la funzione della scrittura: restituire voce a ciò che non ha mai avuto suono. O forse, come suggerisce il tuo titolo, dare una cronologia all’acqua, cioè tentare l’impossibile: ordinare il caos della vita. E tu ci sei riuscita. Hai costruito un libro che è una diga spezzata e insieme un faro. Una guida per chi ancora non ha trovato la corrente giusta, il battito per restare a galla.

Hai chiamato l’acqua. Non come semplice metafora liquida, ma come tessuto stesso del vivere. Hai nuotato, ti sei lasciata avvolgere. L’acqua come rifugio, ventre, elemento materno e prelinguistico. Ed è da lì che nasce la tua scrittura, da un luogo prima della grammatica, da una corrente che si fa forma solo nel momento in cui la si abita, testimonianza di una sopravvivenza frammentaria, imperfetta, reale.

Come un mosaico che si compone soltanto guardandolo in controluce.Afferri le parole come si afferrano le bracciate: con forza, ritmo, urgenza. Le tue frasi sembrano veniredal fondale, portano alghe, detriti, ossigeno. E come certi nuotatori di apnea, tu ci insegni che si può restare in immersione a lungo, che il fiato si può trovare anche quando si crede finito.

“Un libro sul corpo”, scrivono. E sì, lo è. Ma anche sull’anima che il corpo trattiene. Un’anima scorticata, che però resiste. E mentre il mondo si riempie di narrazioni che anestetizzano, la tua è una narrazione che sveglia. Che non ha paura di mostrare ciò che pulsa sotto la pelle. Un atto poetico, nel senso più arcaico e carnale del termine: hai creato forma là dove c’era solo materia dolorante. E ci hai donato un’opera che non serve solo a leggere, ma a vivere.

Non voglio aggiungere altro. Solo questo: grazie. Grazie per averci lasciato entrare. Per aver aperto la porta non solo della tua vita, ma anche di quel luogo in cui dolore e creazione si toccano. Grazie per averci mostrato che si può sopravvivere, sì, ma anche vivere con pienezza attraverso l’arte, attraverso la parola. La tua parola, che oggi più che mai mi pare necessaria, urgente, piena.

Con emozione e gratitudine,

Daniela

(che ogni giorno impara a nuotare di nuovo.)

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