Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera a Luca Mercadante, autore di “La fame del Cigno” Sellerio

Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera a Luca Mercadante, autore di “La fame del Cigno” Sellerio
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In questa rubrica Daniela Marra raccoglie lettere nate da letture che hanno lasciato un’impronta profonda. Libri che conducono altrove, parole che hanno saputo accendere uno sguardo, muovere un passo. Qui, chi legge non recensisce: racconta il suo attraversamento, e affida alla parola scritta il gesto antico della gratitudine.


La Fermata.


di Daniela Marra

Caro Luca,

Ho iniziato a leggere il tuo libro quando andavo a lavorare a Castel Volturno. Prendevo un autobus con i finestrini appannati e i sedili consumati ubriachi di storie. Si fermava lungo la Domiziana, lo stradone dritto come un giavellotto lanciato a occhi chiusi nella periferia del mondo.

C’erano sale giochi con luci spente, saracinesche mezze calate, scritte scolorite, e donne ferme sul ciglio della strada che promettevano amore per pochi euro, nel freddo, nel fango, nel buio. Una volta scesa, il vento sapeva di plastica bruciata e mare lontano. In quei momenti, prima di entrare nella scuola colorata, pensavo che il mondo stesse scivolando via da sé stesso, piano, in silenzio.

Ma poi arrivava qualcuno a salutarmi, a offrirmi un caffè, e quella gentilezza imprevista come un bagliore nel fango mi ricordava che la miseria non aveva ancora vinto del tutto. A ritorno mi aspettava una fermata rotta, un buco sul cemento. A quella fermata ci passavo le ore. Neppure un palo piegato, solo sterpaglia, cemento e silenzio.

Aspettavo il pullman, ma intanto guardavo. Un uomo, che sembrava un reduce del Vietnam, chiedeva l’ora a chiunque. Sempre la stessa domanda, come una preghiera rotta. Poi si sedeva per terra e guardava la strada. A volte si fermava un ex detenuto che lavorava al canile. Diceva che i cani erano meglio delle persone. Portava un sacco con dentro crocchette, “per chi ha fame, anche se non abbaia”.

Le macchine si fermavano lente. Dentro, uomini con le mani sul volante e lo sguardo fermo. Aspettavano. Poi ripartivano. Poi gli altri, gli invisibili, ragazzi venuti da lontano, mani callose, occhi bassi. Il sudore gli scolava giù per le tempie. Non parlavano. Stavano lì, in fila, come alberi piantati male.

Non succedeva niente. Succedeva tutto. Quella fermata era un altare. Un punto fisso nel nulla. Nessuno sapeva se il pullman sarebbe arrivato. Ma tutti tornavano. Ogni giorno. Come se l’attesa, da sola, bastasse a dire: sono ancora qui.  

E proprio lì ho finito La fame del Cigno avvertendo una strana e persistente sensazione nel petto, simile a quella che si prova quando, uscendo da un sogno opprimente, ci si accorge che quel sogno conteneva più verità di quanta ne abbia la veglia.

Il tuo romanzo è molte cose. È un noir, sì, ma solo per chi si accontenta della superficie. È anche un’indagine, e pure un ritratto sociale. Ma soprattutto, è un grande canto solitario su ciò che resta dell’umano quando il mondo attorno ha già ceduto.

Domenico Cigno — il tuo protagonista indimenticabile — non è un eroe, non è un detective, non è nemmeno un uomo “in cerca della verità”. È una creatura che resiste, e questa resistenza ha la forma di una fame. Fame di cibo, certo, ma anche fame di riscatto, di calore, di senso, di un’ultima possibilità che non arrivi troppo tardi. È come se avesse scelto di restare vivo, letteralmente vivo, solo per poter ancora una volta dire io c’ero, io ho guardato in faccia il male, ho affondato i piedi nel pantano, e da lì ho provato a non affogare.

Il suo corpo smisurato, il passato da pugile e poi da giornalista, il peso che porta e che pare venire da profondità non solo fisiche: tutto concorre a farne una figura “monumentale”, come certe statue dimenticate nei giardini in rovina, che si coprono di muffa e di silenzio ma ancora reggono lo sguardo. E attorno a lui c’è un mondo che racconti con la lucidità febbrile di chi conosce ciò che scrive: il litorale campano, i canali dei Regi Lagni, Baia Verde, Castel Volturno.

Luoghi che nel romanzo non sono ambientazioni, ma stati dell’anima. Ogni dettaglio vibra di una nostalgia incurabile, come se la bellezza passata – o forse solo immaginata – non riuscisse più a farsi strada nel presente, se non sotto forma di maceria.

C’è, al centro del romanzo, un cadavere. Una ragazza giovane, forse un’attivista, forse una studentessa del Nord che nessuno conosce davvero. È lei il motore apparente della storia, ma è Cigno a doverla inseguire, o meglio, a inseguire sé stesso attraverso di lei. È questo il paradosso più toccante del libro: che l’indagine su una sconosciuta diventi il modo per riaprire le ferite di una vita perduta. E come nei migliori racconti, ciò che conta non è mai la verità che si scopre, ma il modo in cui ci si perde cercandola.

Nella tua scrittura così limpida, eppure febbrile; così precisa, eppure poetica, si percepisce una tensione rara, una pietas che non diventa mai sentimentalismo. Racconti il dolore senza farne spettacolo, la miseria senza compiacerla, mostri la solitudine, la paura, l’impossibilità dell’integrazione, la violenza, lasciando intravedere che esiste un fuoco sotto le ceneri, l’umano che resiste. I bagliori, i gesti piccoli e accaniti, le relazioni che non si salvano ma si stringono comunque. Tutto condito da una lingua sobria, ma vibrante. La fame del Cigno è un romanzo che eccede il genere, che lo prende come spina dorsale e lo riempie di visioni, di pensiero, di umanità.

E poi, c’è l’ironia. Un’ironia che non consola né alleggerisce, ma resiste come uno strato di sale sulla pelle. Ironia amara, scomposta, a tratti irresistibile, che accompagna Cigno nei suoi inciampi, nei dialoghi corrosivi, nei pensieri a metà tra la rassegnazione e la lucidità di chi conosce il ridicolo del mondo e non smette, per questo, di volergli bene. L’ironia, in questo libro, è una forma di sopravvivenza. E a tratti, persino di pietà.

La fame, qui, è più che un sintomo: è il modo in cui il corpo parla dell’anima. C’è qualcosa della fame-esistenza di Knut Hamsun, ma anche di quella sommessa, quotidiana, senza redenzione, che si trova nei racconti di Raymond Carver. L’indagine che Cigno conduce – goffa, intuitiva, emotiva – ha il tono delle confessioni di Graham Greene, dove il delitto non è mai un fatto isolato, ma l’occasione per riaprire un conto mai chiuso con la propria coscienza. Il litorale, con i suoi hotel in rovina, le case sgarrupate, i viali deserti che odorano di salsedine e plastica, pare uscito da un sud di Faulkner, ma più disfatto, più arrendevole, senza nemmeno più l’epica del declino. E infine, Cigno. Cigno che suda, inciampa, arranca, mangia. Cigno che ci fa ridere senza mai farci sentire superiori. Cigno che sembra uscito da una pagina di John Kennedy Toole, un Ignatius Reilly mediterraneo, con meno spocchia e più dolenza.

Per tutto questo, e per il dono di averci lasciato incontrare un personaggio come Domenico Cigno, che è brutto, sbagliato, comico, disperato, eppure inevitabilmente vicino, grazie.

La letteratura, quando è vera, ci riconosce. E questo, in certi giorni, può bastare.

Con stima e gratitudine,

Daniela

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