Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera a Giancarlo Piacci, autore di “Nostra signora dei fulmini” Salani edizioni

Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera a Giancarlo Piacci, autore di “Nostra signora dei fulmini” Salani edizioni
In questa rubrica Daniela Marra raccoglie lettere nate da letture che hanno lasciato un’impronta profonda. Libri che conducono altrove, parole che hanno saputo accendere uno sguardo, muovere un passo. Qui, chi legge non recensisce: racconta il suo attraversamento, e affida alla parola scritta il gesto antico della gratitudine.
Nelle crepe delle cose
di Daniela Marra
Caro Giancarlo,
ho finito di leggere Nostra Signora dei Fulmini una sera di vento, e forse non poteva esserci atmosfera più adatta. La voce del tuo romanzo, affannata, eppure piena di calore, mi è rimasta addosso come una salsedine invisibile, che gratta la pelle anche quando credi di averla tolta.
Vincé, con la sua stanchezza buona, con le sue colpe e la sua voglia di rimediare, è un personaggio che non si guarda da fuori: si attraversa. Ho camminato con lui lungo le banchine di Bacoli, ho sentito la solitudine del suo passo quando si allontana amareggiato e il nodo in gola che gli sale quando si sente chiamare “forestiero” da chi, pure, avrebbe dovuto riconoscerlo.
In lui ho trovato la fragilità che cerchiamo di nascondere, quella che ogni tanto viene a galla nonostante tutto, quando falliamo, quando ci sentiamo di troppo, quando i legami si spezzano o si piegano senza far rumore. Hai costruito un noir che scorre su un doppio binario: il presente sociale, minacciato e crudele, e il passato che ritorna sotto forma di fantasmi vivi, pronti a ribaltare il fragile equilibrio di un uomo già in bilico. Ma, più ancora della trama, ciò che resta è l’umanità che ci metti dentro.
La comunità spaccata, la promessa illusoria di una multinazionale famelica, i sogni in saldo di chi cerca solo un futuro che non li umili. È un’Italia ferita la tua, che ha perso la fiducia ma non la voglia di provarci ancora.
E poi c’è Canè. Il suo silenzio, la sua intelligenza obliqua, la sua forza di creatura ferita eppure capace di addestrare l’istinto feroce. Mi ha toccata profondamente. In lui c’è la bellezza dei personaggi che non devono spiegarsi per farsi capire. Il suo legame con Vincenzo, nato nella ferita e mantenuto nella lealtà, è forse l’elemento più tenero di un romanzo che non fa sconti a nessuno, neanche al lettore.
Nel tuo sguardo, ho ritrovato quello che Jean-Claude Izzo riusciva a fare con Marsiglia: raccontare una città e i suoi margini non come sfondo, ma come materia viva, intrisa di tensioni, ingiustizie, dolori e slanci. Come lui scrivi un noir che non si accontenta di intrattenere, ma prende posizione. E nel farlo, scegli di stare dalla parte degli ultimi, di chi fatica, di chi sbaglia ma non rinuncia a cercare un senso. Restituisci quella complessità che appartiene alla vita, senza piegarti alle logiche comode del mercato. Tu scrivi come si tira una rete a strascico: raccogli tutto quello che c’è sul fondo, senza scegliere solo ciò che luccica. E in questo tuo raccontare si sente forte una napoletanità che non è bandiera né cartolina, ma radice, spesso dolorosa, mai rinnegata.
È quella che sa che l’amicizia è una faccenda seria, che ci si tiene stretti anche quando si sbaglia, anche quando si scappa. Pure l’amore, come l’amicizia, è una faccenda seria. Non sempre ha bisogno di parole, ma di presenza, di pazienza, di quella forza che si scopre nel silenzio condiviso, quando tutto sembra perduto, eppure si resta. Tra le pieghe di un’esistenza segnata dalla fragilità e dal disordine ci sono Vincenzo e Irene.
Non un fuoco, non una luce accecante. Hanno la forza delle parole dette sottovoce. Una pazienza nascosta, minuta, che si posa lieve sulle cose rotte. Un amore che si aggrappa senza clamore, quando tutto intorno sembra dissolversi, quando le ombre si allungano lente e il mondo si spoglia di certezze. Quel filo tenue, sottile, tenace come il respiro di chi ancora spera, l’unico a tenere insieme ciò che pare ormai perduto.
Volevo ringraziarti, Giancarlo, per questo libro che non consola, ma accompagna. Che non giudica, ma guarda. Che non salva, ma comprende. Lo affido con cura a chi ha ancora il coraggio di stare nelle crepe delle cose, dove spesso nasce la verità.
Ci sono libri che si leggono come si ascolta un vecchio seduto all’ombra, che racconta una storia vera. Il tuo è così. Un libro che non vuole insegnare niente, ma che lascia il segno come certi detti antichi, che ti tornano in mente quando serve.
L’ho sentito vicino come si sente vicino qualcuno che non si è mai conosciuto, ma che parla la stessa lingua del cuore. È la stessa voce che hanno i pescatori quando tornano a riva al tramonto: poche parole, mani stanche, occhi pieni di mondo.
E questa, oggi, è una forma rara e bellissima di consolazione. Con amicizia sincera,
Daniela
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