Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera a Claudia Carrescia, autrice di “Arcano” Albatros edizioni

Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera a Claudia Carrescia, autrice di “Arcano” Albatros edizioni
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In questa rubrica Daniela Marra raccoglie lettere nate da letture che hanno lasciato un’impronta profonda. Libri che conducono altrove, parole che hanno saputo accendere uno sguardo, muovere un passo. Qui, chi legge non recensisce: racconta il suo attraversamento, e affida alla parola scritta il gesto antico della gratitudine.


XIII. La soglia muta


di Daniela Marra

Cara Claudia,

C’è un certo tipo di libro che non si incontra: ci arriva. Il tuo, come sai, è giunto così, una mattina, nel tempo dell’imminenza. Stavo per partire. La porta già socchiusa, le valigie impazienti, il pensiero altrove. Quando, nell’atto più semplice di raccogliere una busta e di sfilarne il contenuto, qualcosa si è fermato. Arcano era lì, muto e denso, come un oggetto proveniente da un altrove.

Non l’ho scelto, non l’ho aperto, non avevo tempo, eppure l’ho portato con me. Come si porta un simbolo. O un compagno che non chiede parola, ma presenza. Non era il momento di leggerlo, ma di averlo accanto. Di lasciarlo nel fondo della borsa, sotto gli altri libri, quelli “da finire”, come una carta girata a faccia in giù. Non ancora svelata. Eppure già decisiva.

Penso che tu non abbia scritto Arcano per raccontare una storia. O forse sì, ma solo come si tende un filo in un labirinto, non per uscire, ma per ricordare che il labirinto ha una forma. Il tuo gesto mi è parso un altro: quello, più raro e più antico, di suggerire un disegno.

Come un sogno ricorrente, come un mazzo di tarocchi, dove ogni figura appare, scivola, scompare, ritorna: una sorta di ri-velazione, che non cerca di consolare chi lo legge con una narrazione ordinata e chiusa, invece lo convoca a un gioco più grande e più serio. Leggendoti, ho pensato spesso a un mazzo di tarocchi lasciato su un tavolo leggermente inclinato: le figure si muovono, scivolano, si sfiorano, poi scompaiono, poi ritornano. Così si comportano le tue storie: non si dispongono in fila come soldatini, ma appaiono e si sottraggono, ci chiamano senza urlare.

Non c’è nulla, nel tuo libro, che tenti di consolare il lettore con un ordine facile, con una fine netta. Al contrario, Arcano ci chiama a un gioco più vasto. Più vero. Un gioco serio, dove ogni carta ha un peso e un enigma, e dove anche l’apparente frammentazione nasconde una chiamata. Tu non accompagni il lettore per mano, gli apri una soglia e resti in silenzio a guardare se avrà il coraggio di attraversarla e chissà se sorridi. Tessi una ragnatela d’inchiostro nel buio, senza mostrare mai il centro, lasciando che ogni filo si congiunga all’altro in silenziosa necessità.

All’inizio sembra tutto casuale, come accade in certe città sconosciute in cui ci si perde senza panico, anzi con una strana fiducia. Ogni evento sembra apparire per caso, e invece pulsa come un frammento nascosto di un disegno più grande, più antico che non conosciamo: una voce, poi un’altra, un gesto fuori campo, una figura che passa, poi, senza che ce ne accorgiamo, tutto comincia a risuonare, come se un disegno segreto stesse già parlando attraverso le fenditure.

A tratti, leggendo, si ho sentito che non ero io a guardare il libro, ma che era lui a osservarmi. A scrutarmi da dentro le sue pieghe. C’è qualcosa di profondamente radicale, e anche tenero, nella tua decisione di non rassicurare. Di non fingere che la vita sia una linea retta, con un centro sicuro, un ordine da decifrare come un rebus. Arcano non offre mappe, ma spiragli. E proprio lì, dove mi sono smarrita, ho cominciato a capire. Mi hai fatto perdere l’orientamento giusto quanto bastava per scoprire che nel disordine c’era un altro tipo di logica, più viva, più vera.

Una logica che somiglia al respiro. O al destino, quando smette di spaventare e comincia a parlare piano. Ogni vicenda si fa combinatoria, ritrovando una tensione antica e insieme ultramoderna: quella tra il caos e l’ordine, tra la morte e la metamorfosi, tra la forma e la possibilità che ogni forma venga disgregata, rimescolata, rinata. È una sfida lanciata alla linearità narrativa, certo, ma anche a una più profonda illusione del nostro tempo: quella che il reale debba essere sensato, stabile, univoco. Arcano ci ricorda invece che ogni vita è molteplice, ogni incontro è un incrocio, ogni fine è un’origine travestita.

C’è in queste pagine un gesto ludico e insieme filologico. Ogni personaggio: il barista epilettico, la donna anziana che archivia il mondo in file digitali, l’uomo disturbato dai suoni di sottofondo, la creatura sfigurata dalla violenza, non è semplicemente “una figura”, ma una vibrazione, un tono, un ritmo che lo distingue e lo determina. La lingua cambia con il corpo, il lessico aderisce all’anima. È una vera grammatica dell’umano quella che tu costruisci, in cui il romanesco convive con la lirica, il monologo interiore con l’epifania, la parodia con l’evocazione archetipica. E poi c’è lei, la Morte. O, meglio: l’Arcano XIII. La carta senza nome.

Non è un simbolo decorativo, ma il principio narrativo stesso. Nei tuoi racconti, morire non è mai semplicemente finire, è attraversare una soglia. È dismettere un’identità per entrare in una forma altra. È, come nei tarocchi, un’interruzione feconda. In una società che censura la morte, che la relega in angoli opachi e sterilizzati, Arcano la riporta al centro, senza ossessione, con un’intelligenza antica, quasi mitica, che ricorda quanto ogni trasformazione autentica passi per una perdita. E allora si comprende che ogni racconto è una carta. Ogni personaggio, un seme.

Ogni voce, un colore. Si può seguire il percorso delle pagine come in un romanzo tradizionale, certo. Ma si può anche perdersi nei tracciati cromatici, come in un labirinto simbolico. È il lettore stesso a dover scegliere: seguire, mescolare, interpretare. Tu non fai la narratrice onnisciente, non tiri i fili, fai la croupier. E come in Borges, ogni storia è universo e frammento allo stesso tempo.

Nel tuo testo non c’è un “ordine giusto”, ma ogni combinazione conduce a una forma di senso. È questo forse il tuo gesto più antico e potente: dirci che anche l’imprevisto, anche l’apparente assurdo, ha un suo posto. Che esiste una trama anche dove non la vediamo. Che l’architettura del reale può essere segreta, ma non è inesistente.

E in fondo, non è questo il paradosso stesso dell’esistenza? Vivere significa attraversare la morte, ogni volta, ogni scelta, ogni piccola rivelazione. E morire, come tu suggerisci con forza e grazia, non è che un’altra forma dell’inizio.
Resta, dopo l’ultima pagina, una domanda che continua a girare come un pensiero non del tutto espresso, come un’eco sotto la pelle: e se ogni persona che incontriamo fosse solo una carta del nostro stesso mazzo? A forza di pensarci, ho iniziato a sospettare qualcosa. Che anche tu, Claudia, lo sia.

Una carta mescolata tra le altre, una figura che si affaccia dal margine del tavolo, non per guidare il gioco, ma per ricordare che il gioco esiste. Non un’artefice, non una regina, qualcosa di più difficile da nominare. Una testimone del visibile e dell’invisibile. La carta che resta tra le dita un attimo più a lungo, prima di essere posata.

Grazie per aver scritto Arcano e per avermi accompagnata, senza chiedere nulla, in un viaggio che non sapevo di dover fare.

Con affetto silenzioso,
Daniela

(scritta al margine di una sera, in compagnia di due gatti e una lampada fioca)

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