Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera Antonella Ossorio, autrice di “La fame del suo cuore” Neri Pozza edizioni

In questa rubrica Daniela Marra raccoglie lettere nate da letture che hanno lasciato un’impronta profonda. Libri che conducono altrove, parole che hanno saputo accendere uno sguardo, muovere un passo. Qui, chi legge non recensisce: racconta il suo attraversamento, e affida alla parola scritta il gesto antico della gratitudine.
Colpevole innocenza
di Daniela Marra
Cara Antonella,
c’è una fame che non ha niente a che vedere con lo stomaco, e che invece scava più in fondo, in quel punto muto dell’anima dove abitano le domande senza risposta, i dolori che non hanno nome, le ferite che ci portiamo addosso anche quando il tempo ci ha già cucito la pelle.
Quella fame, tu l’hai raccontata. E lo hai fatto con una lingua che somiglia a una lama e a un abbraccio, a una risata e a un pianto. La fame del suo cuore è vertigine, varco, un dolore condiviso. È una storia che squassa e salva. E io, leggendoti, mi sono sentita nuda, esposta, esaminata. Ma anche riconosciuta.
Nadežda, la voce narrante, è molto più di una protagonista: è specchio, specchio sporco e tremante in cui mi sono vista e da cui ho distolto lo sguardo mille volte. Lei non racconta solo la sua vita. Parla per tutte noi che, almeno una volta, ci siamo sentite oggetti. Silenziate. Invisibili. Lei è l’inizio di un riscatto che passa, prima ancora che dal coraggio, dalla parola. Dalla possibilità di dire. E quindi di esistere.
E poi c’è lei, Alexe Popova. Che non è una figura da amare o da odiare, ma da affrontare. Come si affronta una madre oscura o una sorella perduta. Con timore, con attrazione, con orrore. Tu non ne hai fatto un’eroina e nemmeno un mostro. Hai avuto il coraggio raro di non giudicare, e costringi a pensare, a sentire, a spostarsi dai binari sicuri del giusto e dello sbagliato.
Madame Popova uccide, e lo fa senza pentimento. Non per rabbia, ma per giustizia, o quella che lei, nella sua logica disperata, chiama giustizia. “Non ho mai ucciso né donne, né bambini, né uomini giusti”, dice. E io, leggendo, mi sono chiesta: quante volte anche io ho avuto fame di una giustizia così? Quante volte ho pensato Basta! sapendo che quel pensiero era già un passo dentro il buio?
Ricordo un pomeriggio di vento e mare, mentre leggevo il tuo libro su un traghetto. Ero sola, con il rumore delle onde e il silenzio rarefatto dei passeggeri che sonnecchiavano o guardavano i telefoni. Io, invece, avevo le dita strette attorno al volume, e le parole mi arrivavano addosso come spruzzi d’acqua salata, come colpi.
C’era qualcosa in quelle pagine che si intrecciava al movimento del traghetto, una sorta di oscillazione tra il tormento e la speranza, tra l’oscurità e la rivelazione. Mi sembrava di sentire la voce di Nadežda accanto a me, mentre guardavo il profilo lontano della costa, come se anche lei cercasse un altrove. Quel libro, lì su quel ponte battuto dal vento, era diventato più che un oggetto: era un passaggio, una zolla viva.
Il tuo romanzo ha la forza di non offrire scorciatoie. Non permette di metterci al sicuro. Senza eroi e senza retorica, dove la violenza maschile non è solo un fatto di cronaca, ma una malattia ereditaria. Tra donne vittime e carnefici insieme. Dove la maternità è un dono doloroso, e la sorellanza una medicina lenta. Un antidoto imperfetto. Eppure salvifico.
Il tuo stile è una creatura viva. È carne, è sangue, è fango e miele. Ha qualcosa della fiaba nera e qualcosa della poesia contadina. Si legge con il cuore che batte e gli occhi che faticano a staccarsi. In ogni riga si sente la sapienza del ritmo, la precisione di chi sa quanto pesa una parola, quanto può ferire o curare. È una lingua arcaica e contemporanea insieme, fatta di oggetti semplici e di visioni abissali. Di latte, di cenere, di steppa e di respiro umano.
La tua parola non descrive, evoca. Non spiega, evoca. E ogni evocazione è un graffio, un richiamo, una carezza disperata. C’è un’intimità che non chiede permesso. È come se la pagina si facesse pelle, e le parole mani: mani che toccano, che carezzano, che talvolta stringono fino a fare male. Ti leggo, e mi trovo implicata, complice, chiamata. Come se una memoria antica, forse nemmeno mia, mi attraversasse d’improvviso. Ed è allora che la lettura si fa esperienza, e non più consumo. Perché i tuoi personaggi non vogliono solo essere ascoltati: vogliono che noi, leggendo, ricordiamo qualcosa che pensavamo di aver dimenticato. Qualcosa che pulsa ancora, da qualche parte, sotto la carne e sotto il pudore. L’inchiostro sembra richiamare le forme della memoria più che quelle della narrazione.
Come se il libro non fosse stato scritto solo per essere letto, ma per essere ricordato. Una voce che non pretende di spiegare, ma che si fa presenza: una visita, un’ombra che si siede accanto e non se ne va. Senza costruire, riemerge. E in questo suo emergere lento, carsico, rivela ciò che si tenta sempre di dimenticare. È come se l’intero romanzo respirasse con la fatica dell’infanzia, con il peso di ciò che non si poteva dire.
E allora le parole diventano fragili e potenti insieme, come frammenti di vetro incastonati nella carne: fanno male, ma portano luce. In quelle ferite che racconti, nelle mani callose di Alexe, nelle attese mute delle donne, c’è la possibilità di una redenzione che non ha nulla di sacro, ma è tutta terrestre, tutta nostra. E mi sono sentita un passo più vicina a quel luogo segreto da cui nascono i racconti che non ci lasciano più.
E c’era, tra le righe, come un tremore. Come se ogni pagina si portasse dietro un vento antico, una neve non caduta. Leggerti è stato come entrare in una stanza fredda dove qualcuno, senza dire una parola, ha lasciato accesa una candela. La luce non bastava a scaldare, ma diceva che qualcuno, prima di me, era passato da lì.
Così, tra le tue parole, io ho visto corpi che si muovevano piano, anime curvate dal troppo sentire, e quel senso d’infinita lontananza che spesso accompagna la vita delle donne. Il tuo romanzo ha la voce degli oggetti dimenticati e dei sogni non sognati. Eppure, tutto resta. Tutto resta.
Hai saputo tenere insieme la dolcezza e il sangue, la compassione e il veleno. Hai dato corpo e voce a un mondo femminile che sa di latte e di fatica, di libri condivisi e infusi di rosa canina. Hai fatto di un villaggio russo dell’800 un luogo vicinissimo, una stanza della nostra stessa casa. E hai reso la scrittura un atto di resistenza. Di bellezza rubata.
Non ti nascondo che ho chiuso il libro con un nodo alla gola e un battito inquieto. Con la sensazione che non tutto si possa spiegare. E che in fondo, forse, è giusto così. Perché la giustizia, a volte, ma solo a volte, ha davvero il volto ambiguo dell’ingiustizia. Perché l’amore e la rabbia, come scrivi, sono fatti della stessa sostanza.
Grazie per aver avuto il coraggio di raccontare. Grazie per le parole scelte con la precisione dei gesti d’amore. Grazie per avermi lasciato quella fame, la più vera, che è desiderio di dignità, di libertà, di riconoscimento. E anche, semplicemente, di essere viste. Con emozione e gratitudine,
Daniela
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