Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera ad Antonella Cilento, autrice di “La Babilonese” Bompiani editore

Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera ad Antonella Cilento, autrice di “La Babilonese” Bompiani editore
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In questa rubrica Daniela Marra raccoglie lettere nate da letture che hanno lasciato un’impronta profonda. Libri che conducono altrove, parole che hanno saputo accendere uno sguardo, muovere un passo. Qui, chi legge non recensisce: racconta il suo attraversamento, e affida alla parola scritta il gesto antico della gratitudine.


Sotto la Luce eterna di una Memoria senza fine


di Daniela Marra

Cara Antonella,

Ti ho letta come si attraversa una visione, con un misto di vertigine e stupore, senza sapere se uscirne ferita o illuminata. Ogni pagina era una soglia, un’epifania che risvegliava qualcosa di antico e di misteriosamente mio. Ho camminato con te, tra le epifanie che attraversano i secoli, sentendomi sospesa tra il turbine del tempo e il peso del destino. Agitata. Incantata.

Ho sentito la Babilonese incarnarsi nei secoli, apparire e scomparire come un’ombra che torna, che non si lascia dimenticare. Era una figura e una voce insieme, una cicatrice collettiva, un enigma. E io, lettrice, inseguivo quella voce come si insegue un destino: sapendo che sfugge, ma che nel fuggire dice tutto. Mi hai lasciato addosso il tempo: non quello che scorre ordinato, ma un tempo caotico, che risucchia, come un vortice. Un tempo karmico, ciclico, senza inizio né fine. Il tempo delle donne, della memoria, delle città che non vogliono guarire. Leggerti è stato sentire che la letteratura può diventare rito.
E che certe storie non si leggono: si ereditano.

Libbali, Albalì, Ballu, Alice. Tu mi hai raccontato un’unica donna che muta, o forse tante donne che sono la stessa immagine fragile, scolpita su una tavoletta dorata e spezzata, riapparsa e ri‑apparsa, finché il tempo non è diventato circolare. E io l’ho abitato quel tempo grazie alla tua penna, metamorfica, che accoglie il sacro e lo scarto, il canto antico e la lingua del popolo, facendoli respirare nella stessa frase, come se alta e bassa potessero cantare insieme, sotto lo stesso cielo inquieto.

E poi, quel trauma: non un incidente nella memoria, ma la sua sostanza. Ti leggevo e sentivo il passato irrompere nel presente, spezzare la cronologia, riavvolgere i giorni, inchiodarmi al peso di avere amato, sofferto, vendicato. Un trauma che non si racconta, abita.

La Babilonese è un’opera che naviga tra due dimensioni opposte, ma compenetranti, come due correnti sotterranee che si uniscono nell’ombra. Da un lato, c’è il rigoroso e preciso bisogno di ricostruire un passato, di immergersi nel dettaglio storico, tra i frammenti di una storia lontana ma tangibile. Ogni tessera che posi sulla pagina è come un frammento di vita che non appartiene solo alla memoria, ma alla carne stessa, una carne che respira tra i secoli. Dall’altro, il romanzo esplora la dimensione della visione, un orizzonte che va oltre la semplice ricostruzione storica, dove la trama si apre in un infinito, dove il tempo è sospeso e il mito diventa verità.

Tutto si intreccia in La Babilonese, come in un mosaico che non ha confini, in cui la protagonista stessa diventa l’incarnazione di questa tensione tra storicità e invenzione. Libbali, inizialmente raccontata come una figura storica, si dissolve gradualmente in una visione che trascende l’epoca, riemergendo sotto vari volti, ripercorrendo epoche lontane ma, al contempo, sconosciute. Come una visione che non si può mai concretizzare del tutto, ma che ritorna sempre, sotto nuove spoglie. Una donna che, di volta in volta, assume una forma diversa, ma che resta sempre la stessa, immagine fragile e indistruttibile, scolpita nell’istante eterno di un destino che non si può sfuggire.

Non è più solo una donna, ma un simbolo, una luce che si fa carne e poi scompare: la luce di una lucerna che brucia attraverso secoli di polvere e di sangue, guidando chi si è perduto tra le rovine della storia. Quella luce, che inizia a brillare con forza nel momento in cui Libbali, dopo la morte del suo amante Avhiram, promette che tornerà, quattro volte o quaranta volte quattro, se necessario. Ogni promessa che si fa nella storia è un’ombra che si proietta nel futuro, ogni vendetta è un passo che si ripete. Come se Libbali fosse destinata a esistere eternamente, come un sogno che non finisce mai, come un ritratto che esce dalla tavoletta dorata e spezzata che la racconta, destinata a vivere più e più volte, sotto mille volti, ma sempre la stessa.

E così la sua figura si trasforma: da una divinità femminile dei tempi di Assurbanipal, con ali e piedi di uccello, a un’immagine fragile su una tavoletta, fino a divenire visionaria, attraversando i secoli. La sua presenza si ripresenta, di volta in volta, sotto forme diverse: in un archivio rinvenuto a Londra nel 1848, nello studio di un pittore napoletano del XVII secolo, o nei disegni di un erudito del XIX secolo, ma sempre lo stesso volto: quello di una donna che non si lascia mai dimenticare. La memoria di Libbali non è mai un rifugio tranquillo, è una presenza inquietante che ritorna. È una donna che non muore mai, che non può essere sconfitta, che si reinventa, che lotta in ogni secolo, sempre con lo stesso furore. Eppure, in ogni volto che assume, c’è sempre il dolore di quella promessa. Un dolore che non guarisce mai, come un’eco che attraversa l’aria, tra le rovine di città distrutte, tra i volti smarriti dei popoli in fuga.

Questo è il viaggio che intraprendiamo con te, Antonella, un viaggio attraverso i secoli e l’invisibile, dove la storia si fa mito, e il mito si fa storia, fino a confondersi in un’unica voce che non cessa di risuonare. La Babilonese è la testimonianza di un destino che non ha tempo, che si ripete, che ritorna, in un ciclo che non si ferma mai. E in questo viaggio, noi siamo come l’archeologo Layard, che si ferma a guardare gli occhi di Libbali, occhi che lo fissano sotto un cappello eccentrico, gli occhi che non smettono di parlare, che raccontano il dolore, l’amore, la vendetta di un’intera vita. Libbali non è solo un personaggio, ma la visione di ciò che è stato e di ciò che rimarrà: una promessa che attraversa il tempo e la morte, che vive attraverso le parole e il ricordo, che ci raggiunge ancora oggi, come una lucerna che brilla nelle tenebre.

C’è una donna che muore e rinasce. Una regina che fugge da Ninive e non smette mai di fuggire. Si chiamava Libbali. O così si faceva chiamare. Regina assira, moglie di un re che preferiva la guerra alla carne, la scrittura all’amore. Le avevano dato quattro figlie, e lui le aveva tolte tutte. Lei amava un mago dagli occhi di lapislazzulo, Avhiram, che veniva da lontano con una bambina: Yeoudith, o Giuditta, o Judith. Non era una favola. Era un massacro. Quando il re scoprì il tradimento, fece uccidere l’amante e le figlie. Ma la bambina, la sola che non era sua, apparve alla regina con una lucerna tra le mani e la guidò nella notte. Da allora Libbali non è mai più morta. Solo scomparsa e riapparsa, sotto nomi diversi, in corpi diversi. Come certi sogni.

Come le ossessioni. Nel 1848, Henry Austen Layard, archeologo e sonnambulo, scava le rovine di Ninive mentre una donna e una bambina lo osservano nel sonno. Non dorme più. Le vede ovunque. La bambina ha una lucerna. La donna non parla. Nel 1656, a Napoli, durante la peste, un pittore di battaglie – Aniello Falcone – dipinge la morte e conosce Albalì, una donna venuta da lontano. Dice di essere una maga. Dice cose che nessuna donna dovrebbe dire. Ha con sé una bambina. Nessuno sa da dove vengano. Nemmeno lui, che ne è innamorato. Nel 1683, un altro uomo – l’erudito Sebastiano Resta – trova un disegno del Falcone che non dovrebbe esistere.

Una donna con occhi vuoti e la scritta babilonese. Il disegno si salva dal fuoco per caso, per mano di un certo Argento. Non è importante, ma è così che i segni sopravvivono: per caso. Nel 1881, Filomena Argento, discendente di quell’uomo, scopre il disegno. È una donna invisibile, non bella, non giovane, non moglie. Ma ha memoria. E la memoria, diceva Borges, è una forma di vendetta. Poi una certa Alice Bilardi, imprenditrice in rovina, incontra una ragazzina misteriosa. Una luce in mano, parole di un’altra epoca. E una sensazione di déjà vu che la paralizza.

Ogni volta che la donna ritorna ha un altro nome, ma sempre lo stesso sguardo. Non sempre è regina. A volte è maga. A volte è strega. A volte è una donna senza niente, che ride con la bocca piena di fango. In ogni epoca porta con sé la bambina, che è la sua ombra, la sua lanterna, la sua vendetta. In ogni epoca, prima o poi, compaiono anche Assurbanipal, l’antico re, e Acherib, il medico che ha avvelenato le figlie. Il carnefice e il complice. L’ordine e la complicità. Ma ciò che resta, più di tutto, è la fiamma. Piccola, inutile, ostinata. Quella fiamma che Yeoudith porta in mano. Un simbolo, forse. O solo un richiamo.

E così che mi hai trascinata in un labirinto pieno di specchi, dove ogni personaggio è il doppio di qualcun altro, ogni epoca una reincarnazione della precedente, ogni nome un’eco. C’è una storia d’amore, ma anche una storia di vendetta. C’è la memoria dei luoghi, delle donne dimenticate, delle lingue estinte. Ma soprattutto c’è il tempo, che non guarisce niente e non perdona. C’è Libbali, che torna per tutte le figlie. E torna anche per noi.

Eppure, Antonella, non riesco a smettere di pensare che la memoria sia un corpo. Un corpo vivo, che suda, sanguina, si lacera, si cura. Non un archivio. Non un documento. Ma un ventre che trattiene, che genera, che esplode. È la carne viva di Libbali che attraversa le epoche, che si incarna e si reincarna, che si lacera e si ricompone ogni volta. Non la possiamo trattenere su tavolette, né su schermi: ci scivola tra le mani come il sangue, come l’acqua, come un pianto che non si asciuga mai. La memoria tra le tue pagine si erge viva e capricciosa, si aggrappa ai corpi, ai gesti, agli oggetti. È una camicia insanguinata, un occhio dipinto, un profilo inciso nella pietra o sulla carta. La memoria è anche ciò che fa male: è il trauma che pulsa sotto la pelle, che si riapre ad ogni ritorno, che non cicatrizza mai davvero. È un’ossessione. Una febbre che ci prende, ci consuma e ci salva allo stesso tempo.

E allora la memoria diventa vendetta. Non un gesto singolo, ma una necessità che trapassa i secoli. Non ci si vendica una volta sola, no! Ci si vendica ogni volta che si viene dimenticati. Ogni volta che una donna viene cancellata dalla storia. Ogni volta che un amore viene sotterrato, che un dolore viene ridotto a nota a piè di pagina. Libbali torna per vendicarsi, ma anche per esserci. Per dire: «Io c’ero, io ci sono. Sono questa carne che avete provato a cancellare. Io sono tutte. E tutte torneremo.» E c’è un senso quasi fisico, quasi erotico, nel modo in cui la memoria ritorna. Non è mai un’evocazione, è un’invasione. Una possessione. È un battito che si ripete. Un ventre che pulsa. Una bocca che chiama. La memoria si fa corpo, si fa fame. Fame d’amore, fame di giustizia, fame di verità. La memoria di Libbali è una creatura che non chiede il permesso, entra, si siede, mangia con noi, dorme nel nostro letto.

E il destino – che parola abusata, a volte – in questo romanzo, invece, è reale. Reale come un graffio, come una lama. Non è destino nel senso astratto: è carne che si stringe, che si tende, che si lega ad altre carni. È ciò che si eredita senza volere, ciò che ci abita senza chiedere. Libbali è destinata a tornare, eppure ogni volta lo fa con una resistenza disperata, quasi implorando pietà. Ma non c’è pietà nella storia, non c’è pietà nella carne. Il destino è scritto su corpi vivi, e questi corpi non smettono di parlare.

Perciò La Babilonese non è solo una storia d’amore e vendetta, è la storia di una memoria che non ha radici stabili, che non trova mai una fine, ma che continua a ripresentarsi, a reincarnarsi. La memoria, che sarebbe tanto amata e desiderata, è la stessa che diventa sfuggente, instabile, sempre a rischio di essere inghiottita dall’oblio. Eppure, nel tentativo disperato di trattenerla, si costruiscono ponti tra le epoche, come se il tempo fosse una tela su cui dipingere la nostra identità. Ogni personaggio, da Libbali ad Alice, attraversa un tessuto che sembra destinato a svanire. La memoria femminile non è solo privata, domestica, è anche storica, e il suo recupero è un atto di potere e di rivendicazione. Non è un caso che Libbali, prima donna regina e poi maga, sempre scivoli tra le pieghe dell’oblio, per essere sempre di nuovo ricordata, ogni volta con la bambina che porta una lucerna tra le mani.

Questa fiamma, che nel corso dei secoli illumina le donne che l’hanno portata, è il simbolo di un percorso doloroso, ma anche illuminante. È una luce che non si spegne mai, che riesce a guidare attraverso le tenebre della tradizione letteraria che ha spesso taciuto le donne e anche attraverso le sue pieghe di silenzio, che sono diventate, paradossalmente, le loro voci più forti. È una luce che brilla nel cuore di Libbali e delle sue reincarnazioni, sempre accompagnata dalla piccola bambina bionda. Donne che continuano a percorrere la stessa strada, tra le ombre, nonostante il tempo. La loro forza è nel ritorno, nel non dimenticare, nel ripetersi e nel vivere mille e una volta. E in ogni ritorno, la vendetta si fa storia, si fa amore, si fa memoria.

Continua a riverberare dentro di me la sua ferita: una promessa di vendetta tramandata come fiammella, una lucerna che attraversa millenni. E con essa, la domanda che tu ci lasci: può la memoria resistere alla morte? Può l’amore sopravvivere alla distruzione, alla cancellazione? In queste parole che ti scrivo, Antonella, non trovo risposte, ma un’inquietudine che rimane sospesa nell’aria, come se, nel fondo della storia, non ci fosse mai stato un tempo in cui davvero si possa dire “è finita”. Forse non lo sarà mai, forse siamo tutti condannati a rimanere intrappolati in un qualcosa che non si spegne mai.

Grazie per aver messo in pagina un romanzo che è insieme museo, incubo, canto d’amore e racconto politico. Un romanzo dove alla memoria non resta che il corpo delle donne, e la scrittura è l’unica vendetta che vale.

E io continuerò a cercarti, Babilonese,
nelle crepe delle pietre,
nelle voci spezzate dei mercati,
nelle lucerne accese tra le righe.

Grazie per questa luce che mi ha raggiunto.

Con affetto e riflessione,

Daniela

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