Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera a Anna Mallamo, autrice di “Col buio me la vedo io” Einaudi editore

Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera a Anna Mallamo, autrice di “Col buio me la vedo io” Einaudi editore
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In questa rubrica Daniela Marra raccoglie lettere nate da letture che hanno lasciato un’impronta profonda. Libri che conducono altrove, parole che hanno saputo accendere uno sguardo, muovere un passo. Qui, chi legge non recensisce: racconta il suo attraversamento, e affida alla parola scritta il gesto antico della gratitudine.


Sotto, dove chiama un sangue più antico del nome


di Daniela Marra

Cara Anna,
non so bene come scriverti, perché quando ho finito Col buio me la vedo io, ho capito che il libro ha preso il posto di un viaggio mai fatto. Volevo andare a Reggio, attraversare la città con una persona che non vedo da tempo e che amo profondamente, perdermi nel suo caos e nel sole che si schianta sulle pietre. Il viaggio, però, è rimasto immobile. Reggio non è arrivata, ma qualcosa di lei è entrato nel mio corpo, si è fatto pelle. Non il mare, né la terra rossa: è stata la lingua. La tua lingua.

In un parco lontano da Reggio, sotto un salice che affondava le radici nel terreno, ho capito che la città che cercavo era già nelle mie ossa. Tra il brusio della gente e le voci acute e cristalline dei bambini, il libro era solo un oggetto tra le mani, mentre la mente già correva tra le strade polverose, le ombre allungate, le voci di Rosario e Lucia. Nessuna distanza tra me e quel mondo mai visto: l’aria di Reggio si era fatta terra, carne, sangue.

Ogni parola era la soglia di qualcosa che stava per accadere. Ogni pagina, un varco verso il buio. Un buio che cresce dentro, qualcosa che riaffiora e non si lascia dimenticare, un rimosso che non smette di tornare a galla. Un viaggio tra assenza e presenza, dove il sangue è la sostanza stessa della scrittura.

Tu hai scritto con quel sangue, e non è una metafora. Col buio me la vedo io è sangue che pulsa tra le righe, che si mescola alla polvere, al dialetto, all’urlo della città e al silenzio delle case chiuse. Sotto quel salice, sotto quel cielo bianco, sentivo che Reggio, quella Reggio mai vista, mi osservava, mi reclamava, mi possedeva. Come se quella terra mi fosse stata infilata sotto la pelle con iniezioni d’inchiostro. Ora Reggio è dentro di me. Il suo sangue, il suo buio, la sua carne si sono mescolati a quella che sono.

E in un attimo mi ritrovo insieme a Lucia, sedicenne di Reggio Calabria, che rapisce e imprigiona Rosario, figlio di un boss della ‘ndrangheta, in un sotterraneo. Il motivo del suo gesto, per quanto difficile da spiegare, ha radici nella sua confusione adolescenziale e in un legame complesso con la morte di un affetto. La ragazza, nel suo strano rapporto con il prigioniero, continua la sua vita, divisa tra la famiglia, il liceo e le contraddizioni del suo essere.

La storia si intreccia con le violenze sociali ed emotive della sua città, tra la lotta dei collettivi studenteschi e la guerra di ‘ndrangheta. Lucia resta sospesa tra il desiderio di scoprire la verità e la necessità di difendere la propria famiglia, con il buio che permea la sua esistenza. In un continuo alternarsi tra sopra e sotto, luce e oscurità, la ragazza fa i conti con sé stessa e con il mondo che la circonda.

Ogni cosa, nel tuo libro, non è mai solo ciò che sembra.  Si viene assaliti da una furia sottile che penetra nelle ossa, nei pensieri, nella carne stessa. Leggerti è come ascoltare il sangue nelle vene, ora più caldo e ora più freddo, come un veleno che si mescola al respiro, come il sigillo di una verità che non è mai solo fisica, ma che scava sotto la pelle, ti raggiunge nel profondo, dove la carne non è più carne, ma territorio di guerra.

C’è qualcosa di magico nelle tue parole, una magia non di incantesimi e illusioni. È la magia di una realtà che, per essere compresa, deve essere travolta. Lucia, con quel nome che suona come una contraddizione, è una ragazza che naviga in un oceano di luci e ombre, senza paura di sfidare le proprie radici, la propria città, la propria famiglia. E nel suo viaggio intravedo il cammino di una Persefone universale, la fanciulla che scende nel regno dei morti per poi tornare, cambiata, al mondo di sopra.

Ma la tua Lucia non ha nulla di etereo, nulla di dea: la sua discesa è carne, è sangue, è quella condizione animalesca che porta ad affrontare la parte più oscura di sé. Non è il mito della fanciulla rapita, ma quello della donna che si fa rapire dal buio, che si lascia trasfigurare dalle ombre per portare con sé qualcosa di sconvolgente, qualcosa che solo il sangue, la carne e la morte possono rivelare. È una discesa che brucia, che lascia cicatrici sul corpo, ma che in fondo è l’unico modo per incontrare una verità che non si può ignorare.

Con una lingua che non ha paura della carne, ma è carne essa stessa, dove ogni frase è un colpo di coltello, ogni descrizione è un atto di violenza, la tua parola possiede la potenza dell’antica tragedia e il marchio archetipico del femminino. Perciò Lucia è eco di mille epoche, di tutti i corpi delle eroine tragiche, affamate di giustizia e vendetta, che si muovono tra eros e thanatos, e che, in fondo, hanno perso tutto. Lei è una figlia di questo sangue che non ha mai smesso di bruciare, che lotta non solo contro gli altri, ma contro sé stessa e contro una città che è madre e mostro, più una condanna che una salvezza.

 L’intensità che riesci a infondere in ogni scena è simile a una frattura che non guarisce mai, a una ferita che diventa la chiave di lettura di tutto. Tu, come pochi, riesci a miscelare il concreto e l’immaginifico, l’intensità e la dissoluzione. Il tuo è un mondo che pulsa, che respira nella carne, e che non teme di mostrare il suo lato oscuro.

Ciò che fascina, in tutto questo, è la tensione tra il desiderio di salvezza e la consapevolezza che la salvezza stessa può essere una condanna. Il “bizzòlo”, il margine che separa il buio dalla luce, è l’unico punto in cui si può fare una scelta. Lucia, come tutti i personaggi che abitano il tuo romanzo, è in costante bilico, sospesa tra la necessità di distruggere per salvarsi e la consapevolezza che la salvezza può solo venire dalla distruzione. E in questo dualismo c’è tutta la violenza della vita, tutta la bellezza della scrittura, che non è mai solo estetica, ma è pura esperienza di una realtà che non lascia respiro.

La violenza che Lucia subisce, quella che infligge, quella che incarna, non ha mai il volto del nemico, ma di un mondo che si mangia le sue stesse radici. In questo mondo che hai creato, tra la luce che acceca e il buio che inghiotte, le cose diventano sogni e i sogni diventano cose. E anche la città di Reggio diventa personaggio,come la casa che non è più solo un luogo, è una prigione, un rifugio e una condanna. È un campo di battaglia, un corpo che si piega, si spezza, ma che non muore mai.

La tua scrittura si allunga come un’ombra che scivola nelle cavità più buie della carne e poi sputa la luce, una luce senza salvezza, che disorienta e incatena. Il tuo libro è più di un romanzo, è un’esperienza. Un’esperienza di sangue e carne. Ma non il tipo di sangue che siamo abituati a immaginare di trovare nei racconti: il rosso splendente che fa sussultare, che cola dalla bocca di un corpo squarciato, come nella migliore tradizione narrativa.

È il sangue che non scorre più, che resta nelle vene come una promessa non mantenuta, come una minaccia inesplosa. È il sangue bruciato, che affonda nel cuore della carne, una memoria che non scompare. Non c’è abbondanza, non c’è dramma, solo un filo sottile che lega tutto, che separa e unisce le cose, le vite, i corpi.

Un sangue che infetta la terra, la casa, la mente, che basta per tenerti in piedi quando tutto il resto va in frantumi. E ogni parola è un corpo che cede sotto il peso di un’altra carne senza cercare redenzione. È la carne del mondo di sotto, quella che non viene mai raccontata, ma continua a pulsare come una ferita. Come il sangue, che non scorre, che non esce, ma che ti sta addosso come una maledizione.

Non è solo un legame tra generazioni, tra vita e morte, è la linfa di una cultura che non sa liberarsi dai propri demoni. Un demone che non lascia respirare, che continua a inseguire in ogni angolo, in ogni gesto, in ogni parola.

È il sangue che trattiene, che inchioda tra passato e futuro, tra superficie e abisso. Parla, infetta le menti e le case, resta sepolto nelle tombe e riemerge negli occhi. Diventa pensiero, si confonde con il respiro di chi vive quel mondo. Un sangue che non guarisce, e non serve che lo faccia, perché è retaggio, peso, malia.  

E come una presenza che non si svela mai del tutto, il sangue resta, intriso nelle ossa, nel linguaggio, nei volti di chi lo porta dentro, di chi ne è vittima. Così, alla fine, non c’è riscatto. Niente lacrime, nessuna cura. Il sangue consuma, trasforma, lascia solo l’ombra di ciò che si era. Perciò il tuo romanzo fatto di carne e memoria, di furia e luce nera, non chiede perdono per il dolore che porta.

Mi ritrovo a riflettere che forse non si può raccontare il Sud senza metterci la carne, senza metterci il sangue, senza metterci il sudore e le lacrime di chi ci vive, senza fare i conti con una storia che non smette mai di tornare a chiedere il conto. Lucia è solo un altro volto di questa storia, ma la sua lotta, la sua sfida al buio, sono anche la nostra, anche la mia.

“Se ti sfamo sei salvo, e sei mio”, scrivi, e non posso fare a meno di pensare che la salvezza in questo libro non sia mai davvero un’uscita, ma un labirinto. Eppure, ogni parola che leggo, ogni scena che si svolge davanti ai miei occhi, è un passo in più verso quella salvezza, un passo che, forse, non porterà mai via dal buio, ma permetterà di vederlo con occhi diversi.

La tua voce è stata un urlo di sirena, seducente e feroce, che chiama i vivi come se fossero già morti. L’ho seguita fin dentro l’abisso, credendola un varco e lo era. Ma non verso una fuga: verso un ritorno. Un nostos senza casa, dove l’approdo è cenere e le parole hanno il peso delle ossa. Eppure, è lì che si resta: intrappolati nella tua lingua, catturati da un canto che inchioda e accende. Sulla riva biancheggia ciò che fu carne, ma il canto, il tuo, continua. E non voglio smettere di ascoltarlo.

Con stima infinita,
Daniela

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