RIFIATO: Luce, ferita e resurrezione nella pittura di Luciana Mastrangelo

RIFIATO: Luce, ferita e resurrezione nella pittura di Luciana Mastrangelo
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di Daniela Marra

Nel panorama contemporaneo, attraversato da continue oscillazioni linguistiche e da un senso diffuso di esaurimento simbolico, il Rivitalismo propone un ritorno alla vitalità del gesto e della luce. In questo contesto si inserisce RIFIATO, la nuova mostra di Luciana Mastrangelo, che diventa non solo un titolo ma un vero atto di resistenza, che si colloca precisamente in uno spazio liminale: in quell’istante sospeso in cui il mondo sembra trattenere il fiato prima di precipitare o risorgere.

Ed è qui che si innesta il Rivitalismo di Roberto Rovirò, movimento che dell’arte fa un atto di rianimazione, di riattivazione del sensibile, di ritorno alla vita non per fuga, ma per intensificazione.

Il titolo dell’esposizione, a cura di Roberto Rovirò, richiama l’idea di re-spirare, dare di nuovo respiro alla materia, come suggeriva Paul Valéry quando affermava che l’arte “dà un’anima a ciò che la vita ha consumato”.

Come scriveva Giacomo Leopardi nello Zibaldone, “il colore non è ornamento, ma forza che dà vita alle cose”. Luciana Mastrangelo sembra abbracciare questa intuizione portandola oltre la forma, oltre la figura, oltre la fedeltà al reale, ella compie un atto di sottrazione, e proprio in questa sottrazione l’immagine si fa più vera, più urgente.

Le sue opere – dense, fibrillanti, attraversate da cromie che pulsano come ferite aperte – dialogano con la grande tradizione dell’informale europeo senza imitarla. La negazione della figura non è mai nichilista, ma una sorta di epifania negativa, come direbbe Lyotard, un lasciare che il mondo emerga proprio nel punto in cui sembra scomparire.

La sottrazione alla rappresentazione figurativa diventa dunque un gesto etico, prima ancora che estetico, ossia liberare la pittura dall’obbligo del riconoscibile per far emergere l’essenza emotiva degli eventi, “il colore che precede la parola”, direbbe Rimbaud nelle sue Voyelles.


Il non senso cromatico, questo scontro deliberato di toni, è allora lessico di un’evidenza nuova, una forma di ordine che nasce dal caos, come nelle meditazioni di Maria Zambrano sull’“illuminazione del senza forma”.

L’artista non teme il brutto, il dissonante, il putrido. Anzi, come Caravaggio che posava la luce sulle piaghe dei miserabili, ella punta il pennello verso ciò che la nostra società tende a occultare: il marcio, il disordine morale, l’ombra, le sbarre.

Il suo colore diventa un dispositivo di rivelazione: un gesto quasi dantesco – quando Dante, nel Purgatorio, descrive la luce che “vince l’ombra” senza cancellarla – perché lei illumina, e nell’illuminare rimette in circolo un’energia che sembrava perduta.

Nel cuore della sua ricerca vibra la radice latina di compassione: cum patio, “io soffro con”.
La pittura dell’artista è una pittura che patisce il mondo nella stessa tensione che si trova in certa letteratura testimoniale, in Levi, in Celan, in Mariangela Gualtieri quando afferma “non sono mai sola dentro la mia pena”.

Il colore diventa così un tessuto emotivo, un luogo di prossimità radicale. L’empatia non è un tema, è sostanza stessa del gesto pittorico. E il dolore, attraversato e restituito, diventa luce accecante, rivelatrice, che costringe lo sguardo a rinegoziare le proprie certezze.

In RIFIATO, l’azzurro è il colore-simbolo, un territorio mentale, un vasto mare di transizione.
Esso richiama l’“azzurro metafisico” di Yves Klein, ma anche il “blu di lontananza” di Novalis, e perfino quella tinta di inquietudine che Ungaretti vede nel mare come “un cielo capovolto che trattiene il respiro”.

L’azzurro di Luciana non è pacifico: è un campo di tensione, uno spazio dove il buio non è sconfitto ma affrontato, dove la luce si misura con la sua ombra. È l’attesa prima della rinascita, l’istante del respiro trattenuto. È il colore del quasi, del forse, del non ancora. È, in definitiva, il colore del Rifiato. Altro elemento costante nella mostra sono le sbarre, tracciate come fenditure, come verticali insistite che interrompono la continuità del campo cromatico.

Sono limiti, certo, ma non solo: sono anche misure del desiderio, come le verticali di Barnett Newman che tagliano lo spazio per generare il sublime. Le sbarre dell’artista evocano costrizione e insieme apertura. Sono ciò che impedisce e ciò che permette di rinascere. Come scrive Emily Dickinson, “È la prigione che fa la libertà più cara”.

Nelle sue tele, esse diventano il segno vivo di una tensione spirituale, il gesto che cerca un varco, che cerca aria, che cerca respiro. Che cerca, ancora una volta, rifiato.

Nel suo insieme, RIFIATO è molto più che una mostra, è un percorso di attraversamento. È un cammino nel quale il colore non serve a descrivere, ma a risvegliare; non ad abbellire, ma a ridare vita.
Il Rivitalismo, qui, è la convinzione che la pittura possa ancora fare ciò che la realtà spesso disattende: restituire energia a ciò che è stato consumato, rianimare ciò che appare spento, fare del dolore una forma di luce.

Come scriveva Simone Weil, “la bellezza è l’esperienza del reale illuminato dalla grazia”.
In Luciana Mastrangelo, questa grazia è immanente, umana, fragile. È la grazia del colore che, pur venendo dalla ferita, rende possibile un nuovo respiro. E così, al termine del percorso, resta una certezza:
RIFIATO non chiede allo spettatore di capire, né di interpretare, ma di sentire, di farsi attraversare, di vivere il quadro come un atto di rigenerazione comune. Perché la pittura di Luciana Mastrangelo non offre risposte.
Offre aria.
Offre luce.
Offre, appunto, rifiato.

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