Quella notte, a Pererotta.Un grido antico nella notte della Storia a Palazzo Reale: il monologo a due voci di Maurizio Ponticello e Anna Foglietta.

Quella notte, a Pererotta.Un grido antico nella notte della Storia a Palazzo Reale: il monologo a due voci di Maurizio Ponticello e Anna Foglietta.
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di Daniela Marra

La sera del 6 luglio, sotto le arcate silenziose del Cortile delle Carrozze di Palazzo Reale, la città di Napoli ha accolto il battito antico di un sogno perduto. Una donna sola in scena, Anna Foglietta, ha dato voce e corpo a un popolo rimosso, a una verità sotterranea, a un dolore che è ancora tutto da capire. Quella notte, a Pererotta, il monologo scritto da Maurizio Ponticello all’interno del progetto Sogno Reale a cura di Ruggero Cappuccio per il Campania Teatro Festival 2025, è molto più di uno spettacolo: è una ferita aperta che torna a sanguinare con dignità. Un rito di memoria collettiva che restituisce parola, carne e destino a un Sud cancellato, e lo fa nel cuore stesso di quella Napoli che un tempo fu capitale.

C’è un teatro che non si accontenta di raccontare: scava.
Scava nella lingua, nella storia, nella memoria emotiva di un popolo. Quella notte, a Pererotta fa proprio questo. Non è un semplice monologo, ma un corpo vivo, che pulsa sulla scena, trasformando la parola scritta in tensione continua, in evocazione, in canto e ferita.

In un monologo a due voci, quella dell’autore e quella dell’interprete, si alternano memoria storica e racconto emotivo. Come scrive Ruggero Cappuccio, “La storia è una bugia sulla quale due o più persone si mettono d’accordo”. Questa citazione di Voltaire, da lui ripresa, è una lama che lacera il velo dell’ufficialità, rivelando la fragilità delle verità storiche condivise. Proprio come nel monologo, dove il gesto teatrale si fa atto rivelatore, scoprendo ciò che è stato nascosto sotto coltri di narrazioni accomodanti.

Maurizio Ponticello costruisce una drammaturgia raffinata e stratificata, capace di restituire il battito profondo di una Napoli dimenticata, risalendo a un passato che la storia ufficiale ha sepolto in fretta e con troppa disinvoltura: il Regno delle Due Sicilie, la sua caduta, e soprattutto, il tradimento collettivo di un sogno che avrebbe potuto continuare a essere “Reale” non solo nel nome, ma nel destino. Il racconto si incarna in un personaggio femminile potente e fragile: Assunta Migliaccio della Sanità. Ogni anno partecipa alla festa di Piedigrotta, ma questa volta, nel 1860, tutto cambia. Ha perso il marito in guerra, e intanto Napoli accoglie l’ingresso trionfale di Garibaldi. Don Peppe cerca l’appoggio del santo e della Madonna, visitando il Duomo e poi Piedigrotta. Ma la festa, per Assunta, si trasforma in un incubo. Quel 7 settembre segna uno strappo: tra realtà e memoria, tra fede e violenza, tra lutto personale e trauma collettivo. Con ritmo da thriller, la voce della protagonista rievoca una notte sconvolgente. La lingua si fa eco, il suono si fa poesia, il canto si fa grido.

Il testo si muove come un meccanismo narrativo a orologeria: inizia sottovoce, insinuante, quasi elegiaco, poi si apre in un crescendo incalzante, in cui la parola diventa fendente, la memoria si fa denuncia, e il racconto assume i toni di un thriller storico, in cui ogni dettaglio svela una verità rimossa.

Presentando il proprio progetto, Cappuccio scrive che “oltre il legittimo sforzo di mettere in luce la verità, la storia è soprattutto turbamento”. Sulla medesima lunghezza d’onda, il testo di Ponticello condivide e abbraccia questa idea riportando alla superficie non solo fatti, ma emozioni, pulsioni, dolori sommersi: una verità che scuote senza consolare. E come accade nel teatro dei poeti, anche qui la Storia non si limita a essere ricostruita, viene sentita.

La storia di un sogno spezzato, il sogno di una Napoli capitale, di un Sud non vinto, di un Regno protagonista, di un popolo che custodiva cultura, ricchezza e dignità prima che la Storia lo relegasse ai margini.

La voce narrante dell’autore per bocca della protagonista rievoca, indaga, accusa, si commuove, si dispera. E mentre racconta, ricostruisce una verità più profonda di quella dei documenti, quella della coscienza collettiva.

Il monologo intreccia con abilità una pluralità di registri, affondando le radici tanto nella solennità della tragedia greca quanto nella teatralità sanguigna della sceneggiata napoletana. C’è il pathos, la catarsi, il destino ineluttabile delle antiche eroine tragiche, ma anche il pianto, il canto, il grido popolare di chi ha vissuto sulla propria pelle la fine di un’identità. Il linguaggio si muove fluido tra epica e quotidiano, tra lirismo e invettiva, senza mai perdere l’equilibrio, un’orchestrazione precisa che mantiene viva l’attenzione dello spettatore, conducendolo passo dopo passo verso un finale che scuote.

Come sottolinea Cappuccio, “un’azione compiuta alla fine del Settecento può estendere il suo processo sociale ed individuale fino ad oggi”. È proprio questa percezione non lineare del tempo a guidare l’architettura drammaturgica del testo di Ponticello: la Napoli borbonica non è solo un ricordo, ma una presenza viva, che ancora pulsa sotto la superficie della modernità.

Il richiamo alla tragedia classica non è solo estetico, ma strutturale. Come in Eschilo, Sofocle o Euripide, il racconto è guidato da una figura femminile che non è spettatrice degli eventi, ma loro testimone e custode. La protagonista di Quella notte, a Pererotta, come un’Antigone moderna, sfida il silenzio e l’oblio, rivendica una verità negata, compie un rito di sepoltura simbolica per ciò che la Storia ha lasciato insepolto: la dignità di un popolo. C’è la hybris, la tracotanza di un potere colonizzatore, e c’è la nemesis, la punizione o la consapevolezza che arriva, implacabile, attraverso la parola. La scrittura, nella sua architettura, riecheggia il coro tragico nei momenti in cui il monologo si fa plurale, quando la voce della narratrice si moltiplica, accogliendo dentro di sé le voci di un’intera collettività. Come nel teatro di Dioniso, la scena diventa spazio sacro: si compie un rito, si restituisce la parola ai morti, si tenta un risarcimento simbolico. Ma a differenza della tragedia antica, qui non c’è catarsi nel senso classico del termine. La purificazione non arriva. Resta invece una tensione aperta, un nodo che lo spettatore porta con sé fuori dal teatro. A dare corpo a questa tensione è Anna Foglietta, sola in scena, eppure abitata da moltitudini. La sua interpretazione è un atto di immersione totale: il corpo si tende, la voce si spezza, lo sguardo si apre e si chiude come una ferita che pulsa.

Come ricorda ancora una volta Cappuccio, “la storia non è fatta per guarire le ferite, ma per amare la bellezza del sangue”. Nella voce dell’attrice Anna Foglietta, quella bellezza trova forma viva, in un corpo che soffre e canta. La memoria si fa carne, l’interpretazione si fa strumento per portare sulla scena un dolore antico, e tuttavia mai risolto.

Foglietta attraversa il testo come una medium, rivelando ogni sfumatura del dolore, della rabbia, dell’orgoglio e della nostalgia. Il suo ritmo segue quello della scrittura: inizia lieve, si fa incalzante, cresce fino al punto di rottura – e lì, nel pieno dello squarcio, emerge l’universalità del dramma. La donna che racconta è madre, sorella, figlia, popolo e regina, passato e presente. Foglietta modula la voce come uno strumento, passando da registri intimi e sommessi a esplosioni viscerali, dando forma a un ritmo serrato che tiene col fiato sospeso. Non c’è retorica, non c’è imitazione, c’è invece un’adesione totale al cuore pulsante del testo, che restituisce tutta la sua potenza evocativa.

Quella notte, a Pererotta è teatro della memoria e della visione. È un monologo che unisce il respiro del mito alla precisione documentaria, l’urgenza politica all’intimità di una confessione. Un testo che ci interroga non solo su ciò che è stato, ma su ciò che siamo ancora incapaci di vedere.

Chi è allora il vero protagonista di questo sogno infranto?
Quale ferita si nasconde dietro il silenzio di un’Italia unita troppo in fretta?
E cosa può ancora il teatro, oggi, davanti alla rimozione sistemica del passato?

Ecco allora che il teatro, come ci illumina di nuovo Cappuccio, diventa strumento di “turbamento della mente e dello spirito”, capace di rimettere in discussione le narrazioni lineari e pacificate. Non c’è l’esigenza di raccontare un passato concluso, ma “esplorare i rapporti tra memoria e divenire”, riportando il Sud e la sua storia al centro di una riflessione collettiva ancora urgente e aperta.

Ne parliamo con chi questo sogno lo ha scritto, parola per parola: Maurizio Ponticello, autore del testo e custode di una memoria che torna a battere nel tempo presente.

Il titolo Quella notte, a Pererotta è denso di significati. Da dove nasce e cosa rappresenta?

È una semplice virgola a fare tutto il gioco perché specifica che non si tratta di una notte qualsiasi, e indica pure il luogo caratteristico dei fatti. Una nottata speciale, quindi, quella tra il 7 e l’8 settembre 1860: data in cui la festa delle feste, la Piedigrotta, si celebra per la prima volta sotto la bandiera tricolore. È transitiva, sebbene il passaggio tra la fine del Regno e l’inizio di un altro sia anche una frattura epocale.

Il monologo ha un ritmo che ricorda il thriller e la tragedia greca, ma anche la sceneggiata e il dramma popolare.  La scelta stilistica consapevole chiama in causa il pubblico, lo coinvolge, lo travolge. Come nasce questa unione di registri?

Ho cercato di mettere insieme tutti questi registri per dare vita ad Assunta Migliaccio, una popolana della Sanità che vive, gioisce, soffre e muore da vittima, o da eroina, se si preferisce. Gli inserti melò (le nenie, i canti, le orazioni…), per esempio, interrompono a sorpresa la narrazione e la ricompongono in una fluidità corale da Tragedia greca. E così agisce l’espediente narrativo dell’intervento del Deus ex machina,che nobilita il gesto feroce di Assunta. Fra l’altro, l’elemento che unisce ancor meglio i vari elementi è l’uso – per me insolito – della lingua napoletana: è così ricca di sfumature, ritmi e colorazioni che basta da sola a creare poesia e identità.

In scena c’è una sola attrice, ma la sua voce contiene molte voci. Chi è davvero la protagonista del monologo?

Non mi sembra ci siano dubbi, la protagonista è Napoli ferita a morte, nel corpo e nell’anima. Soltanto lei può contenere ed esprimere tante voci insieme.

La Storia, quella ufficiale, quella dei vincitori, sembra un personaggio assente ma ingombrante. Che rapporto ha con la narrazione storica?

In realtà, il mainstream c’è, ed è proprio nella narrazione degli avvenimenti che espone e vive Assunta. Con la differenza che in questo caso, attraverso il suo punto di vista, abbiamo anche la possibilità di conoscere quel che la Storia ha preferito nascondere, per esempio lanciando il modello – anche iconografico – del condottiero, bello e biondo come un Cristo, sbarcato per redimere il Sud. Era marketing. Fu, quindi, tutto oro, come rappresentano l’annessione pure nei libri scolastici? Assolutamente no, come è ovvio, ma la mia non è una polemica – che a nulla servirebbe – quanto piuttosto una presa di coscienza che deve diventare collettiva per una corretta rivisitazione storica e, perché no, per un’analisi aggiornata della Questione meridionale.

Che effetto ti ha fatto vedere Anna Foglietta dare corpo e voce al tuo testo?

È stato toccante. Con il suo grande talento, Anna è stata capace di restituire tutti i colori che avevo immaginato e cercato di tradurre in parole. La capacità di rendere gli stati emotivi contraddittori di Assunta, e i diversi livelli del linguaggio che ho usato, mi ha lasciato senza fiato. È stata bravissima!

Cosa speri che resti al pubblico dopo aver assistito a Quella notte, a Pererotta?

Una emozione, un ricordo netto e qualche interrogativo sui diversi temi trattati, tra cui certamente quello storico e quello sull’universo femminile. Assunta Migliaccio, infatti, racconta in presa diretta di bandiere al vento, di festeggiamenti e di regolamenti di conti, ma anche della condizione della donna che, ahimé! Per certi versi è ancora attualissima. Dopo La vera storia di Martia Basile, l’ultimo mio vessillo narrativo, ora c’è lei, Assunta, e non mi sembra da meno, anche se in una vicenda ambientata in tutt’altro contesto e destinata al teatro.

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