Nel sogno dell’altro: viaggiando dentro Inception, tra arte, memoria e vertigine

Sulle orme di Escher, Philip K. Dick e il destino karmico dell’immagine
di Daniela Marra
Non ho mai creduto che l’arte debba spiegare. Chi ha vissuto abbastanza a lungo da guardare la realtà senza veli, sa che la chiarezza è spesso un sintomo di semplificazione.
E se c’è qualcosa che l’arte vera rifiuta con ostinazione è proprio questo: la semplificazione, la narrazione comoda, il senso chiuso.
Al contrario, essa si manifesta là dove le cose si complicano, come un nodo nel tessuto invisibile del mondo, come un sogno che non si lascia ricordare.
Una sera, in uno di quei momenti in cui la coscienza si allenta e il mondo pare fatto di vetro opaco, mi sono imbattuta nel film Inception. Non lo cercavo. Mi ha trovato. Come certe immagini nei sogni, non costruite, non volute, ma inviate da qualcosa che ci oltrepassa. Mi ha colpita quella sensazione di essere dentro un luogo che non mi apparteneva, eppure mi conteneva. E poi il suo ritorno, come eco di frammenti vissuti in una notte di febbre tra il sogno e la veglia, tra labirinti e desideri.
Inception è per me da quel momento un sogno abitato da assenze, da città che si piegano su sé stesse come origami impazziti, da scale che non portano in alto ma indietro. Non ho pensato subito a un film. Ho pensato a una memoria che non mi apparteneva, ma che stava bussando. L’ho riconosciuta. Non come si riconosce un volto, ma come si riconosce una ferita antica: un dolore senza nome, che si presenta sotto altra forma. Non ho più pensato al film di Nolan, né al cinema.
Quella sensazione — che la realtà sia una versione instabile di qualcosa d’altro — non mi ha più lasciato. Non viene da Nolan. Viene da lontano, da altrove. Da un’arte che non è mai solo figurativa. Da una letteratura che sa che l’io è un’ipotesi, e non un punto fermo. Mi sono tornati in mente certi dipinti di de Chirico, che da piccola mi facevano paura. Quelle piazze vuote, con le statue immobili, i treni che non partono mai. Guardavo quei quadri come si guarda una finestra dimenticata in sogno: non si capisce da dove venga la luce. C’è qualcosa di profondamente onirico e inquieto in quelle architetture che sembrano conoscerci meglio di quanto noi conosciamo loro.
In quella vertigine riconosco anche il riflesso delle incisioni di Escher, dove ogni piano si sfalda, ogni direzione si confonde, ogni scala è un ritorno. Ma soprattutto, riconosco la voce di un altro visionario: Philip K. Dick, il veggente della realtà infranta. In lui, ogni identità è una copertura, ogni mondo è un’illusione che si difende con la violenza.
Ho pensato poi a Magritte, certo, con le sue pipe che non sono pipe e le sue finestre che si confondono con il cielo, ma anche Dalí, con le sue mollezze, i suoi orologi disfatti, i suoi occhi che piangono formiche. Nel modo in cui il tempo viene stratificato, allungato, piegato su sé stesso, c’è tutta la disperazione dolce della materia che si scioglie sotto il peso dell’invisibile. E nel gesto di chi crea i mondi onirici, Ariadne, la giovane architetta dei sogni, si intravede la tentazione demiurgica dell’artista. Chi costruisce sogni per gli altri si condanna a vivere in un sogno non proprio.
C’è un passaggio, nel film, che ritorna ossessivo: “un’idea è come un virus”. Ma io credo che ci sia di più. Le idee, quando sono nate nel dolore, non si limitano a infettare: diventano paesaggio. Non si sa più dove finiscono loro e dove comincia la nostra volontà. Cobb, protagonista del film, non vuole semplicemente impiantare un pensiero: vuole dimenticare. Eppure ogni tentativo di cancellare il ricordo si trasforma nel suo esatto contrario: lo rafforza, lo rende eterno.
Mi è capitato, più volte, di restare prigioniera di pensieri così. Ricordi che non riuscivo a trasformare in parole, e che perciò ritornavano, mascherati da sogni, da rabbie improvvise, da nostalgie sbagliate. Allora capivo: non c’è nulla di più reale di ciò che non è mai accaduto davvero. O almeno non nel modo in cui ce lo raccontiamo.
In Inception il tempo è una creatura liquida, che si dilata e si contrae come un’onda nel cervello. Ci si perde dentro come in un museo notturno, dove ogni quadro è un sogno abbandonato da qualcun altro. Smarrita nella memoria letteraria, ho ritrovato Philip K. Dick, che ha vissuto nell’incertezza assoluta della realtà, e che per tutta la vita ha cercato di decifrare il codice rotto dell’esistenza.
Nei suoi romanzi — e nei suoi incubi — la realtà è una superficie fragile, come carta da zucchero bagnata. Basta toccarla nel punto sbagliato, e si apre. Non in un sogno, ma in un’altra versione della vita. Più vera? Più antica?
Non lo sappiamo.
Il sogno non è mai solo sogno. È campo di battaglia, luogo karmico dove ciò che non è stato risolto torna in altra forma: una città che crolla, una moglie perduta che perseguita, un figlio lontano che non si può raggiungere. Il sogno è forma del debito. E questo lo sanno anche i pittori.
Quelli che dipingono non il mondo, ma ciò che il mondo nasconde.
De Chirico e le sue piazze senza tempo, ombre più reali dei corpi.
Escher, le scale che salgono e scendono insieme, geometrie che soffocano.
Dalí, con i suoi orologi disfatti e i suoi paesaggi che sanno di febbre e d’infanzia scomparsa. Ma anche le prospettive impossibili del Barocco, quelle chiese che fingono cupole e cieli dove non c’è nulla, se non un abisso dipinto. Arte come inganno per scoprire una verità più profonda.
Questi artisti, come Dick, come certi poeti, non creano mondi: ricordano mondi.
E li restituiscono sulla tela o sulla pagina come si restituisce un debito antico.
Mi sono chiesta spesso perché alcune opere mi facciano piangere, anche se non parlano di me, anche se non raccontano nulla di “commovente”. La risposta, forse, è che toccano una parte di me che non vive solo in questa vita. Un nodo invisibile nella rete del mio percorso.
Non so bene quando ho cominciato a credere che l’arte non sia solo espressione, ma karma.
Forse nel momento in cui mi sono resa conto che alcune immagini, alcune frasi, alcune melodie, non sono frutto della pura invenzione, ma di qualcosa che ci viene consegnato. Non inventiamo ciò che conta davvero. Lo riceviamo. Come una ferita. Come un incarico. Come un sogno altrui di cui dobbiamo portare a termine la fine. Per questo dico: l’arte è una forma del karma. Non solo perché nasce da un dolore, da una mancanza. Ma perché chiede di essere trasformata in comprensione. Ci viene affidata per essere attraversata. Non compresa nel senso razionale. Ma compresa nel senso alchemico: fatta nostra, trasmutata.
Non è la realtà a essere sogno, come sosteneva il vecchio idealismo, ma siamo abitati da sogni che non sono nostri. Sogni ereditati, trasmessi, ricevuti come compiti silenziosi. Un pensiero karmico, questo, che risuona in molte tradizioni: non siamo qui per vivere, ma per sciogliere nodi, per redimere qualcosa che ci attraversa. Come diceva Philip K. Dick nella sua visione più vertiginosa, la realtà è ciò che continua a esistere quando smetti di crederci.
Nel fondo di questo sogno altrui, qualcosa ci riguarda: l’impossibilità di distinguere la veglia dalla finzione, la realtà dall’immagine. Non viviamo forse anche noi così, tra una notifica e un tramonto, tra un’idea presa in prestito e una emozione rubata da uno schermo?
C’è qualcosa di profondamente ortesiano in tutto questo: quel modo in cui il visibile si carica di invisibile, e l’oggetto più quotidiano — un ascensore, un ascensore che scende dentro la memoria — diventa porta di passaggio tra mondi. E proprio come Ortese, Nolan sembra dirci che la realtà è fragile, e che l’unico modo per viverla è accettare che spesso ci svegliamo dentro un sogno altrui. Io non so se la mia vita sia reale o solo il ricordo che qualcun altro ha di me. Ma so che, a volte, nei sogni degli altri ho trovato un rifugio. Come Cobb, ho cercato scale che non portano da nessuna parte, solo per ritrovare il suono di una voce amata.
E se la vita fosse davvero questo?
Un sogno condiviso, un quadro senza cornice, un labirinto dove ci si incontra solo per perdersi meglio.
E forse, come scriveva Ortese in un suo racconto smarrito tra i vapori del Mediterraneo, “la realtà non è che un sogno che ha vinto”. Ma che succede, quando a vincere è il sogno? Cosa diventa l’arte?
Non un intrattenimento. Non una rappresentazione. L’arte diventa una pratica karmica.
È il gesto attraverso cui qualcosa che ci sovrasta, memoria, dolore, intuizione, prende forma visibile. Come la punta di un iceberg che affiora appena, ma sotto cela millenni di vita invisibile.
Quando osservo certi quadri, e penso qui soprattutto ai simbolisti, agli esoterici, agli inquieti: Böcklin, Redon, Blake, sento che non sto guardando un’opera, ma sto partecipando a una liturgia silenziosa. Qualcosa in me viene modificato. Un nodo, che non sapevo nemmeno di avere, si scioglie. Oppure si stringe. Come in Inception, la discesa nei livelli più profondi non è mai neutra. Più si scende, più la gravità del passato ci trattiene. Eppure dobbiamo scendere. Perché solo lì, dove il tempo si distende e il sogno si fa abisso, ci avviciniamo al nostro destino più autentico, non quello morale, da giudicare, ma quello narrativo, il racconto che dobbiamo completare.
Nel finale di Inception, la trottola gira, incerta. Non sappiamo se la realtà stia per ristabilirsi o se il sogno continui. Ma il punto non è sapere. Il punto è riconoscere che ciò che ci guida non è mai certo. Che la vita che viviamo potrebbe essere il sogno di qualcun altro. O il sogno di una nostra vita passata che ancora non ha avuto pace. In questo Philip K. Dick è stato profeta:
ha intuito che le identità sono maschere, e che dietro ciascuna c’è una moltitudine invisibile di vite.
Ci muoviamo tra ricordi che non sono nostri, desideri che ci sono stati lasciati, ruoli che non abbiamo scelto.
Eppure siamo qui.
A cercare di finire una frase cominciata altrove.
A tentare di sciogliere un nodo non nostro, ma che abbiamo ereditato.
Forse è proprio qui che l’arte ha il suo compito. Non salvare. Non spiegare. Ma essere soglia.
Uno spazio dove le vite passate, le possibilità future, le immagini non nate e le emozioni dimenticate possono incontrarsi. Anche solo per un istante. In silenzio.
Una trottola gira.
Un quadro ci guarda.
Un sogno insiste.
Non chiedono risposte.
Solo presenza.
Solo ascolto.
C’è una scena, nel film, in cui Cobb si ritrova nel limbo. Tutto è grigio, calmo, vasto. Il tempo si è rotto. Nulla ha più senso. Ma proprio lì, in quell’assenza di forma, nasce l’urgenza di tornare, di risalire. Come se avessimo bisogno del sogno per ricordarci che vogliamo svegliarci. Come se avessimo bisogno dell’arte per ricordarci che siamo più antichi di ciò che crediamo, più vasti, più profondi.
Philip K. Dick ha scritto una volta:
“We are living in a computer-programmed reality, and the only clue we have is when some variable is changed, and reality stops making sense.”
Io credo che quei momenti — quando “la realtà smette di avere senso” — siano fessure di grazia. Momenti in cui la tela si lacera, e intravediamo un’altra luce. Non importa da dove venga. Importa solo riconoscerla.
E avere il coraggio, ogni tanto, di attraversarla.
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