Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera a Emanuele Trevi, autore di Mia nonna e il Conte, Solferino editore

In questa rubrica Daniela Marra raccoglie lettere nate da letture che hanno lasciato un’impronta profonda. Libri che conducono altrove, parole che hanno saputo accendere uno sguardo, muovere un passo. Qui, chi legge non recensisce: racconta il suo attraversamento, e affida alla parola scritta il gesto antico della gratitudine.
Radici invisibili, memorie che restano
di Daniela Marra
Caro Emanuele,
Ti scrivo in un giorno di settembre, di pioggia, come se tutto ciò che di sotterraneo, di non visto, di dimenticato, si fosse accumulato nei cieli pronto a scendere. La pioggia ha un sapore di memoria, di cose che passano senza mai davvero andarsene, di voci che riecheggiano a lungo dopo l’ultimo addio.
La casa da dove ti scrivo non è quella dei nonni, ma ne porta l’impronta, un’impronta antica e lieve che si riflette nel silenzio di una sera che pare non voler mai finire. Tutto a un tratto mi viene in mente la casa della mia nonna, quella napoletana, con il suo odore di ragù che invadeva ogni angolo, che penetrava nei muri e nelle rughe delle persone che vi abitavano.
La nonna era una di quelle figure che restano, come la pioggia, a bagnarti senza che tu riesca mai a liberartene. Ma accade che con il passare del tempo si faccia memoria di lei, non più come di una persona, ma come di un luogo, di un odore, di un’eco di parole. E la sua casa era un giardino senza fiori, un “hortus conclusus” che restava immobile, fisso nei ricordi, come quello della tua Peppinella, che nel suo giardino accoglieva la vita e la morte, ma non dimenticava mai.
Ricordo la veranda dove la luce del mattino filtrava attraverso le ortensie che mia nonna accudiva con amore di madre. Ogni petalo sembrava racchiudere dentro di sé una preghiera, una promessa di vita che si rinnovava. Sua sorella “signorina”, perché zitella pare brutto e non si dice, Rosa, una vestale di rituali senza nome, la vegliava in silenzio, con le mani sempre in movimento, sempre al servizio di una casa che non aveva bisogno di nulla, se non di essere vissuta. La zia, con la sua lunga veste nera, era il simbolo di una religione privata, che non si professava in chiesa ma nel cuore di ogni stanza, in ogni gesto. Sapeva che la bellezza risiedeva nella cura, nel rispetto del tempo che passa e in quella religiosità silenziosa che legava tutto a un filo invisibile di memoria.
E così ho letto Mia nonna e il Conte e il pensiero si trasformava parola dopo parola in una metafora del tempo che sfuma, della vecchiaia che non è mai sola, ma si fa storia. Ogni pagina mi riporta lì, davanti a quella casa che non c’è più, a quei luoghi che erano il mio mondo bambino. Non c’era bisogno di parole per sentire la loro presenza, bastava il rumore delle stoviglie in cucina, il crepitio del fuoco sotto la cenere, o il movimento lento delle mani di mia nonna, che preparavano sempre la stessa cena, ma con un amore che sembrava accogliere anche il futuro.
Quella casa, da dove si vedeva la collina del Vomero, da dove la città sembrava distante, ma anche vicina nel suo mistero, era il punto di partenza e di arrivo di ogni cosa. Era il confine tra il mondo esterno e quello interiore, un luogo dove ogni gesto, ogni sguardo, ogni silenzio, si tesseva in un arazzo senza tempo, esattamente come il giardino di Peppinella. E proprio come lei, mia nonna aveva la capacità di custodire tutto, le sue storie, le sue ferite, e persino la bellezza delle cose che in apparenza non avevano più senso. E forse è questo che il tuo libro mi ha insegnato, come questa pioggia di settembre che continua a cadere fuori, senza un perché. A vivere in silenzio, a dare valore alle piccole cose, a quei momenti che non sono mai del tutto finiti, ma che tornano, come la memoria, a risvegliarci.
Ci sono libri che sembrano piccoli, discreti, quasi timidi al primo sguardo. Poi però, pagina dopo pagina, ti accorgi che non solo ti stanno raccontando una storia, ma che quella storia è la chiave per decifrare qualcosa di più grande: la vita stessa, i legami familiari, e la maniera in cui il tempo cambia il nostro corpo e la nostra anima.
Mia nonna e il Conte è un libro che non solo narra una storia d’amore, ma parla del modo in cui vediamo gli altri, e di come il destino si nasconda spesso dietro piccole cose: un mazzetto di fiori, un sorriso tardivo, un incontro che cambia la vita.
Queste pagine si assorbono. Come si assorbe l’odore della casa dei nonni, o la luce di un pomeriggio qualunque che però resta per sempre.
Un’infiltrazione lenta, un ritorno inatteso, un’infanzia restituita con parole adulte. E al tempo stesso, la prova che la vecchiaia, quando è raccontata con rispetto e ironia, può essere la stagione più tenera e stralunata dell’esistenza.
La trama, se di trama si può parlare, è semplice solo in apparenza: una donna anziana, Peppinella, matriarca calabrese dal carisma arcaico, riceve la visita di un conte altrettanto anziano che chiede di attraversare il suo giardino. Quel passaggio, prima fisico, poi simbolico, diventa il principio di un affetto delicatissimo, che sfida il tempo, le aspettative, persino il pudore. Una storia d’amore che avviene quando l’amore non serve più a niente, e proprio per questo è puro.
Peppinella, che abita un mondo tutto suo, è una delle figure più potenti e affascinanti della letteratura recente. Una donna che incarna non solo un’idea di saggezza apollinea, ma anche una visione profonda della solitudine e del tempo che passa senza preavviso. La sua figura, pur attraversando i decenni, non si piega mai alla nostalgia, si rifiuta di essere ingabbiata dalla malinconia. Il suo giardino diventa il teatro dove la vita, con le sue ciclicità e i suoi piccoli miracoli quotidiani, continua a fiorire, anche nelle sue forme più imperfette e provvisorie. È questo che la rende una regina dei nostri cuori: nonostante l’apparente fragilità, Peppinella è la sovrana di un mondo che non ha paura di cadere, ma che trova sempre il modo di rialzarsi.
Donna Peppinella, con la sua sovranità ironica, è una nonna tirrenica all’apice della perfezione narrativa: millenaria, rupestre, superstite e regina di un regno piccolissimo, eppure assoluto. Governante del suo hortus conclusus con la stessa autorità con cui antiche divinità vegliavano sui fuochi domestici, lei incarna un Sud che non è solo geografico, ma esistenziale.
La sua vita si svolge tra il concreto e l’astratto, tra il quotidiano e il mitologico. Ogni gesto che compie, ogni parola che pronuncia, ha il peso di una tradizione che si perde nelle pieghe del tempo, ma che rimane viva e pulsante nelle sue mani.
E in quel giardino, tra i fornelli che si rompono e poi riprendono vita, tra le piante che sembrano personaggi e le panchine che diventano troni, si agita un mondo che non ha nulla da invidiare a quello delle saghe. Perché il tuo libro, pur senza gridarlo, ci ricorda che le famiglie sono favole di antenati: ognuno con il suo posto, la sua follia, la sua fedeltà. Non c’è bisogno di eroi, basta una sorella smemorata, un autista devoto, una soap opera vista insieme per vent’anni.
La bellezza di questa storia è che fa riscoprire le radici invisibili che ci uniscono, anche quando non siamo più in grado di vederle con gli occhi del presente. Ci ricordiamo che la nostra identità, la nostra storia, sono fatte di piccoli frammenti di tempo, di gesti che sembrano insignificanti, ma che in realtà definiscono tutto ciò che siamo.
Ed è proprio qui che il libro si fa riflessione profonda sulla memoria: come ricorderemo le cose che abbiamo amato? Quante volte siamo capaci di guardare indietro con occhi che non siano segnati dal rimpianto, ma dalla gratitudine per quel che è stato? Peppinella e il Conte non sono solo i protagonisti di una storia, sono gli archetipi della memoria che si svela in modo lento, senza urgenza, senza pretesa di epico. La loro storia è una di quelle che scivola dentro le pieghe del tempo e ci fa comprendere che non è mai troppo tardi per vivere, per incontrarsi, per imparare a guardare con occhi nuovi ciò che già ci circonda.
Il Conte, con il suo sapere “vasto e inutile”, è un personaggio che in altri libri sarebbe stato ridicolo. Ma nel tuo – e nel suo amore per Peppinella – è toccante, necessario, lieve. Come se entrambi, lui e lei, esistessero per ricordarci che la felicità può permettersi di arrivare in ritardo, se ha la pazienza di fiorire in silenzio. La loro storia d’amore è forse la più pura che possa esistere, perché non è invasa da nessuna aspettativa, da nessuna necessità di grandezza. È la felicità che sboccia nel momento in cui non ce lo aspettiamo, quando il cuore è pronto, senza fretta.
Mi ha colpita il tuo sguardo. Quello del nipote-lettore, che si fa scrittore senza enfasi, per osmosi. Perché in fondo, lo capiamo leggendoti, diventare scrittori è ricordare con amore, con stupore e con discrezione. E la discrezione è la cifra più potente di questo tuo racconto. Ogni parola è posata come una pietra preziosa, senza mai prevaricare, ma creando una struttura solida che regge il peso della memoria e dell’esperienza. Non c’è mai pietismo, mai nostalgia artefatta. C’è solo verità domestica, elevata alla dignità del racconto.
Ho letto le ultime pagine con un groppo dolce in gola, come quando si saluta qualcuno che si è amato molto e non si è avuto il tempo di ringraziare. Questa è l’impressione che il libro mi ha lasciato: quella sensazione di qualcosa di irrimediabilmente perduto, ma anche di qualcosa che continua a vivere, invisibile, nelle pieghe del nostro cuore. La storia di Peppinella e del Conte è un abbraccio che va oltre la morte, oltre il tempo, e che ci insegna che le cose più belle non sono quelle che si possono afferrare con le mani, ma quelle che si custodiscono nel ricordo.
E allora ti scrivo per questo, per ringraziare te.
Per averci regalato un libro che sembra piccolo, ma che contiene tutto: la possibilità che le cose rotte tornino a funzionare, la fede nelle storie che non servono a nulla ma ci fondano, e la certezza che nessuna età ha il monopolio sulla bellezza. Le cose, anche quelle più fragili, possono sempre rinnovarsi, e in questo rinnovamento, forse, risiedono le radici della felicità.
Con gratitudine profonda,
Daniela
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