Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera a Giovanna Albi, autrice di “Il castello di carte” Di Felice Edizioni
In questa rubrica Daniela Marra raccoglie lettere nate da letture che hanno lasciato un’impronta profonda. Libri che conducono altrove, parole che hanno saputo accendere uno sguardo, muovere un passo. Qui, chi legge non recensisce: racconta il suo attraversamento, e affida alla parola scritta il gesto antico della gratitudine.
di Daniela Marra
Cara Giovanna,
ti scrivo in punta di voce, come si fa quando ci si avvicina a un luogo già abitato, un castello di carte che non vuole essere sfiorato con troppa irruenza. Lascio che le parole prendano forma solo dopo un tempo di riflessione, perché il tuo libro non smette di ronzare nella testa, come tafano socratico. Non chiede al lettore di seguirlo, ma di sedersi accanto, anche dopo l’ultima pagina. Chiara, la tua protagonista, come presenza interiore non si limita a fare da alter ego alla scrittrice, ma diventa zona franca, spazio di possibilità, incarnazione della vita sognata che la realtà, talvolta, troppo stretta e troppo seria, comprime. E con dolce sfacciataggine tu l’hai fatta parlare e Chiara parla chiaro! È una voce che emerge dal guazzabuglio – come l’hai definito tu – della crisi di mezza età, una crisi senza fronzoli, senza consolazioni mistiche. Una crisi leopardiana, dove la carne smette di somigliare allo spirito ma lo spirito insiste, testardo, nel ragionare, ricordando. E così nasce lei: sportiva, elegante, determinata, avvocata dei deboli e delle cause perse, incapace di resistere alla tentazione di dire la verità anche quando la verità non conviene. Una creatura che vive nel tuo castello di carte con la leggerezza profonda di Antonia Pozzi e la disincantata eticità di chi non ha più tempo per le cialtronerie. La storia di Chiara è un vero labirinto narrativo, non minaccioso, più simile a una casa con molte stanze, molte porte socchiuse, ciascuna delle quali affaccia su un tempo diverso, dove la memoria, bussola e tormento, cura e ferisce, in un eterno ritorno di eros e thanatos. E il ricordo respira come rito laico di sopravvivenza.
In questo tuo modo di scriverne sento una fiducia rara, quella che la letteratura possa correggere la caduta, o almeno attutirla, incollando i frammenti. C’è Chiara e c’è Giovanna, due vite parallele alla maniera di Plutarco? Non proprio,tu fai un gesto che è, insieme, un omaggio e uno schiaffo. Non affianchi due esistenze esemplari per trarne un modello morale. Costruisci una vita parallela che non emula, ma contesta. La tua vita e quella di Chiara non corrono parallele, si intrecciano come due linee che cercano di non fondersi e non separarsi mai del tutto. Plutarco avrebbe cercato ordine, tu scegli la verità del disordine. Plutarco cercava armonie, tu rivendichi la dissonanza.
E come non pensare a Dostoevskij? Le tue pagine, quando Chiara scende nel suo buio, hanno echi delle “Memorie del sottosuolo”, quella voce spezzata, contraddittoria, che sa di non potersi fidare della ragione. Ma, a differenza dell’uomo del sottosuolo, Chiara non si compiace del suo male. Ci convive, lo vede, lo attraversa con severità leopardiana e con una grazia che Dostoevskij, forse, avrebbe guardato con stupore.
In tutto questo labirinto di storie si agita una filosofia della verità non dogmatica, aletheia come slittamento, lampo, come lampeggiamento interiore. Lontana dalla verità freudiana delle pulsioni, quella psicoanalitica delle strutture da decifrare. E infatti, quando critichi la psicoanalisi, pur avendo conosciuto Musatti e Borgna, ti muovi nella direzione di Hillman, verso il sogno come immagine che chiede compagnia, non un enigma da sventrare. La memoria non è da smontare, è da ascoltare, simile a un mito che parla attraverso di noi. La psicanalisi, col suo smembramento, la sua anatomia dell’anima, appare come un rischio: sottrarre all’immaginazione ciò che le appartiene. E Chiara lo rifiuta, intuendo che l’interiore è vasto e non va sezionato, ma abitato.
Tra le immagini che scorrono, una mi ha trafitta:
Chiara seduta su una pietra, monolitica, di spalle al mondo, a scrutare l’orizzonte.È un’immagine che vale un romanzo intero. La vedo come un’icona, il tuo personale “Ricordo, dunque Sono”. Memoria come roccia, come appoggio, come identità, intorno il nulla, il deserto emotivo che torna più volte nel testo come mostro tentacolare. E proprio lì, in quel deserto, fa irruzione un profumo, il profumo di bambino.
Quel tuo modo di fermare Chiara su uno sfondo desertico sembra davvero un dipinto di Edward Hopper. Lì dove la luce non scalda, ma preferisce definire i contorni. Come la tua scrittura: nitida, verticale, a tratti spietata, ma sempre umana. E mentre ilmito della caverna di Platone attraversa come una vena segreta il tuo immaginario, in un istante si capovolge. Non è più la luce a liberare Chiara, ma la memoria. La sua “uscita” non è verso il sole della verità, ma verso quel chiarore intermittente, incerto, quasi domestico, che illumina i simulacri senza distruggerli. Tu capisci che la verità, quella filosofica, non è una rivelazione, ma è un esercizio di coraggio. In questo senso il profumo di bambino che impregna il romanzo funziona come una piccola madeleine proustiana, piccolo miracolo che non riporta il passato ma lo guarisce. È un balsamo contro quel deserto emotivo che abita il testo come un leviatano trasparente. 225 pagine che scorrono come pietre di un sentiero montano, una confessione senza confessione. Un modo per dire ciò che non si può dire senza diventare ombelicali. Riesci a sfiorare la tua esperienza senza cadere nel pozzo del narcisismo autobiografico. Non c’è vomito di vita qui, c’è trasformazione. Trasmutazione. Arte. Trasformi l’esperienza in letteratura, non in sfogo. Questo è un gesto artistico. E la trasformazione, si sa, è l’unica vera etica del racconto.
Il romanzo si arricchisce così di una profondità che non è mai ostentata. E lo fa anche attraverso l’ironia: la classificazione degli uomini (Achille, Ettore, Narciso, don Abbondio) resta una delle pagine più deliziose, perché permette di attraversare il labirinto del desiderio con il passo di chi ha visto molto, ma sa ancora sorridere. Lo studio legale in cui Chiara lavora diventa un teatro dove si muovono maschere e ombre. Ma lei, avvocata dei deboli, resta fedele a un’antica postura partigiana: quella che viene dal nonno, quella che si oppone agli iperperformanti, ai maschi alfa rampanti, alle esistenze lucide ma vuote, perciò sono d’accordo con Chiara: meglio continuare a cantare “bella ciao” per amore.
il tuo Castello di carte non è fragile. Trema, sì. Vibra. Si inclina. Ma non cade. Perché è sorretto da una verità vitale che non ha nulla di assoluto e molto di umano, che siamo vite dentro le vite, bambolette russe che si cercano, puzzle che si completano solo quando qualcuno ci guarda.
Ti ringrazio per avermi fatto entrare in questo castello dove tutto può crollare e, proprio per questo, tutto può rinascere.
Continua così, sorella di inchiostro
Continua a ricordare per esistere, e a farci ricordare per esistere un po’ meglio.
Con stima sincera e un sorriso
Daniela
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