Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera a Raffaella R. Ferrè, autrice di “Lo stronzo geniale. Guida semiseria ai Nino Sarratore” Colonnese editore.

In questa rubrica Daniela Marra raccoglie lettere nate da letture che hanno lasciato un’impronta profonda. Libri che conducono altrove, parole che hanno saputo accendere uno sguardo, muovere un passo. Qui, chi legge non recensisce: racconta il suo attraversamento, e affida alla parola scritta il gesto antico della gratitudine.
di Daniela Marra
Cara Raffaella,
Ti scrivo con la matita rosso sangue in mano, tra un insulto e una risata “complicemente” vendicativa. E, come succede solo con certi ex e certi libri, non riesco a decidere se ti vorrei abbracciare o denunciare per danni emotivi. Parlo ovviamente di Lo stronzo geniale, il tuo libricino fucsia assassinio — sottotitolo: Guida semiseria ai Nino Sarratore ed. Colonnese — che ho letto d’un fiato, con la sensazione precisa di avere le dita nella presa. Ho riso, ho preso appunti, ho rivisto gente. Anche troppa.
E a fine lettura ho avuto la stessa reazione che si ha dopo una serata a base di gin e rivelazioni tra amiche: un misto di lucidità spietata, risate isteriche e un leggerissimo odio verso me stessa per ogni volta in cui ho detto “però è intelligente”.
Nino, nome proprio di sventura, è un’epifania. Hai avuto il coraggio di chiamarlo con nome e cognome. Nino Sarratore. Non metafore, non “quello lì”, non “il narcisista”. Proprio lui. Il personaggio letterario che da Elena Ferrante in poi è uscito dalla pagina e ha cominciato a infestare le vite reali con la disinvoltura di chi “non crede nei rapporti convenzionali” ma convive con l’ego da dieci anni. Perché questo libro non è solo una guida ai segnali che precedono il disastro. È una confessione condivisa, una specie di seduta collettiva con sedia vuota, dove la lettrice dice:
“Ciao, mi chiamo X e ho avuto un Nino.”
E in sala rispondono in coro:
“Ciao, benvenuta. Anche noi.”
Nel capitolo, che hai titolato con un’onestà brutale: Da ‘perché Nino’ a ‘Nino, perché?’ Ti poni la domanda che ci siamo fatte tutte: com’è possibile che un uomo con ottime credenziali emotive (colto, sensibile, impegnato, pure bello se ci mettiamo d’impegno) si riveli, con l’eleganza della goccia che scava, un disonesto seriale? E tu non ti limiti a puntare il dito: lo metti nella piaga. Il vero colpo di genio non è che ci seduce: è che ci convince che con noi sarà diverso.
Come se l’empatia potesse trasformare un lupo in bibliotecario.
Poi per l’onestà di un’anatomia spietata gli fai la radiografia. Altro che geniale: il “presunto idealista” che in realtà fa carriera su ogni palco possibile, accademico, sentimentale, familiare, Instagram incluso.
Scrivi: “C’è chi lotta per gli ideali e chi per sé stesso. Nino sembra appartenere al primo club, ma è presidente onorario e socio fondatore del secondo.”
Colpita e affondata. Perché lo sappiamo tutte: ci hanno cresciute a pane e letteratura, e quindi il “bravo ragazzo con pensieri profondi” ci manda in pappa il radar. Ma tu ci avvisi: la profondità non basta. Anzi, spesso è la copertura perfetta. Il Nino geniale ti parla di Gramsci mentre ti toglie il pavimento da sotto i piedi. Con parole bellissime. Ma il vero errore nel sistema siamo noi! Nino e le sue red flags. Il punto è che Nino, all’inizio, non è stronzo. O meglio: non ancora. Ci diventa con il tempo, l’impunità, l’eco delle nostre attenuanti.
E qui mi hai fregata: perché non dai la colpa solo a lui. La metti anche un po’ sulle nostre spalle.
Siamo noi che gli abbiamo detto “ma sì, è fatto così”; noi che abbiamo scambiato la coerenza per rigidità e la leggerezza per libertà. Noi che volevamo essere la famosa eccezione. Insomma: nel teatrino della delusione, spesso il copione l’abbiamo accettato senza fiatare.
Tu lo dici senza sconti. Ma con quel tono che consola proprio perché non coccola. Il confronto con altri tipi umani e letterari è il tuo momento da critica culturale in tacco 12. Perché non ti fermi al romanzo: richiami Mr. Big (Sex and the City), Daniel Cleaver (Bridget Jones), e anche certi uomini da neomelodico tragico.
Li chiami “personal Nino”, e la definizione mi è rimasta incollata.
Citazione perfetta: “Un po’ come il Personal Jesus dei Depeche Mode, solo che qui più di ‘Reach out and touch faith’ bisogna dire: fuje luntan, tuocc fierr.”
Te la rubo per la prossima volta che mi scrive un filosofo emozionale con l’intimità di un cactus.
Ora, lasciami un secondo per sfoggiare l’unico ricordo utile di un seminario universitario: Roland Barthes, ma qui è tra salotto e chat delle amiche
Sai cosa fai tu in questo libro? Fai esattamente quello che lui auspicava: prendi un testo (Nino), gli togli l’autore (Ferrante), lo consegni al lettore.
Lo rendi nostro. Da personaggio a esperienza. Da narrativa a pattern. E ancora: nel tuo modo di raccontare c’è il “piacere del testo”, quello che Barthes descrive come riconoscimento, frizione, stimolo. Sì, ci fa male leggere certi passaggi. Ma ci piace, perché ci fa sentire viste.
Hai trasformato una delusione comune in un oggetto culturale. E ci hai messe al centro, lettrici, come soggetti pensanti e non solo emotivamente malmenati.
Il tuo stile, Raffaella, è un incastro preciso tra il bisturi e la battuta. Ironico ma mai superficiale, femminista ma non didascalico, brillante ma non compiaciuto. C’è dentro il gusto per la disobbedienza verbale, il piacere dell’intelligenza che si diverte e non si giustifica. Leggendoti, si ha la sensazione che ogni frase sia stata scritta con il sorriso di chi sa dove colpire e con la cura di chi ha già sentito quel colpo sulla propria pelle. È uno stile che fa ridere, riflettere e, cosa più rara, rileggere. Perché dietro ogni battuta si nasconde una verità che scotta. E tu, per fortuna, non ci metti il ghiaccio.
La tua penna è affilata come un taglierino rosa confetto: questo libricino è metà pamphlet, metà manuale d’emergenza per evitare il disastro amoroso (spoiler: se si chiama Nino, gira al largo). Ma il vero colpo basso – in senso buono – è che non lo disegni come un villain da fumetto. Nino, all’inizio, è tutto ciglia lunghe e innocenza a rate, l’antitesi del padre Donato, che già da solo sarebbe bastato per un allarme sociale. Poi però il figlio si impegna, e fa pure peggio. Come ci riesce? Con talento. Il tuo “dizionario dei comportamenti sarratoriani” è una guida alle patologie dell’ego in formato tascabile: manipolazione soft touch, sindrome del bravo ragazzo, scomparsa con effetto wow.
Ma almeno lui, quando sparisce, non si ripresenta con un reel motivazionale o un messaggio alle tre di notte. Evapora, e benedetto resti. Il risultato? Una mappa sentimentale con scritte lampeggianti tipo: “Attenzione, qui cadono le illusioni.” Chiudo una frase che vale come una t-shirt: “No grazie, il Sarratore mi rende nervosa.”
E hai ragione. Basta. Ne abbiamo visti, amati, idolatrati abbastanza.
È ora di guardare i geni da lontano. Magari al museo. Dietro un vetro spesso. E con l’allarme attivo. Magari in un museo del narcisismo, con audioguida incorporata e pulsante d’emergenza. Nel tuo libro c’è tutto quello che serve: l’ironia, la teoria, l’esperienza e la catarsi.
Non salvi il mondo, ma salvi un sacco di tempo alle prossime. E anche questo è un atto eroico.
Grazie per averci regalato un libretto che si legge con una mano sul cuore e l’altra pronta a bloccare il prossimo Sarratore. Alla fine, questo libro non è solo una guida agli stronzi geniali, ma un esercizio di consapevolezza: ci ricorda che amare non basta, se dimentichiamo di pensare. Che l’intelletto non è virtù, se non è accompagnato dalla cura. E che smascherare il fascino dell’egocentrico non è cinismo, è lucidità. Perché anche la filosofia dell’amore, a volte, ha bisogno di un po’ di sarcasmo e di un buon titolo fucsia.
(Con Simone de Beauvoir sul comodino e la lucidità in rubrica)
Daniela
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