Ti scrivo perché ti ho letto. Lettera a Giuseppe Petrarca, autore di “I bambini di nessuno” Solferino editore
In questa rubrica Daniela Marra raccoglie lettere nate da letture che hanno lasciato un’impronta profonda. Libri che conducono altrove, parole che hanno saputo accendere uno sguardo, muovere un passo. Qui, chi legge non recensisce: racconta il suo attraversamento, e affida alla parola scritta il gesto antico della gratitudine.
Dove nessuno vuole guardare
di Daniela Marra
Ci sono libri che arrivano piano, e poi restano dentro come un respiro che non passa. Questo è uno di quelli. Ti accompagna senza fare rumore, ma quando lo chiudi ti accorgi che qualcosa, dentro, è cambiato per sempre.
I bambini di nessuno, un titolo che già dice molto, e che al contempo ti costringe a chiederti cosa significhi davvero essere “nessuno”.
In queste pagine, il commissario Cosimo Lombardo e la sua compagna Carla Russo sbarcano in un Venezuela nel quale la bellezza implora salvezza e la violenza invita silenzio. Il sogno semplice di adottare un bambino diventa improvvisamente un varco verso un inferno di vite rubate.
Ecco: è proprio questo contrasto — il sogno che diventa battaglia, l’amore che s’incrocia con l’indagine — che rende la lettura un’esperienza viva, dolorosa, urgente. La figura di Juan, il ragazzino che tenta di salvare la sorellina Maria, è il cuore pulsante di questa narrazione. E insieme a lui, l’orfanotrofio, le case di carta, la città discarica tra terra e cielo, il boss «El Diablo», che non sono solo dettagli d’ambientazione, ma mappe dell’anima, tracce di un mondo che chiede di essere visto e riconosciuto.
In questo romanzo il paesaggio non è solo sfondo, ma respiro. È un personaggio che partecipa, che osserva e soffre. La pioggia che cade non bagna soltanto la terra: sembra lavare via le colpe del mondo. Le baraccopoli pulsano come ferite aperte, la giungla respira rabbia e protezione insieme. Anche il cielo, con la sua luce ostinata, sembra voler difendere i bambini dall’ombra. È un Venezuela vivo, che non giudica ma respira tra carne e memoria.
Giuseppe, hai avuto il coraggio di non chiudere gli occhi. Hai guardato dove molti distolgono lo sguardo, e lo hai fatto senza clamore, senza spettacolo. Hai scritto con la voce di chi non vuole insegnare, ma solo testimoniare. Forse è per questo che il tuo racconto ferisce: perché è vero, e perché è umano.
Non ti limiti a raccontare un giallo o un noir ma spingi l’attenzione del lettore verso l’infanzia che non ha più voce, verso quei “nessuno” che non scelgono di esserlo ma diventano tali. È uno scrivere civile, eppure intimo; è denuncia, ma anche carezza.
Alcune storie si leggono, e poi ci sono quelle che si sentono nelle viscere, che bruciano sottopelle. La tua è una di queste. Hai preso un commissario milanese, Cosimo Lombardo, e una donna forte, Carla Russo, e li hai mandati dall’altra parte del mondo. Non in cerca di avventura, ma di una culla. Un figlio da amare. Una vita da crescere. Catapultati nel Venezuela che non arriva nei telegiornali: quello che sanguina nelle baraccopoli, che si affoga sotto piogge torrenziali e resta in piedi solo grazie a chi si ostina a credere nella dignità umana.
Hai scritto una storia d’amore e di vergogna, dove la povertà non è un contesto, ma una condanna. E i bambini non sono personaggi, ma fantasmi reali: venduti, abbandonati, curati con niente, salvati all’ultimo respiro o lasciati morire nel silenzio.
Eppure, in mezzo a tanto buio, ci hai messo la luce. Veronica, l’infermiera che ha imparato a sopravvivere al dolore. Juan, quel bambino che sfida la morte per salvare la sorellina. Padre José, che protegge i piccoli come un soldato disarmato. Carla, che non si lascia travolgere ma si reinventa madre della speranza. E Cosimo, che indaga, lotta, si sporca le mani, fino a sparare al proprio sangue per fermare l’ennesima ingiustizia.
Ma quello che resta addosso, dopo l’ultima pagina, non è solo la trama. È quella domanda che fai rimbalzare nel petto: quanti Juan ci sono, oggi, ad aspettare che qualcuno scelga di non voltarsi dall’altra parte? Hai dato voce a chi non ce l’ha. Hai scritto non solo una storia, ma una ferita collettiva. E lo hai fatto senza retorica, senza compiacerti. Hai avuto il coraggio di mettere l’amore alla prova del fango, e la giustizia contro il legame del sangue. E alla fine, quella mano di Cosimo che stringe quella di Carla, sull’aereo che lascia il Venezuela, è più di un gesto: è un giuramento. Perché la vera adozione, qui, è dell’impegno. Di un destino che cambia. Di una causa che, dopo averla vista così da vicino, non si può più ignorare.
Grazie per avermi portato lì. Dove nessuno vuole guardare. E dove, invece, tu hai scelto di restare.
E se anche solo un lettore, dopo averti letto, sceglierà di non voltarsi, allora questi bambini — i tuoi, i nostri — avranno avuto, almeno per un attimo, un nome. Perché nessuno è davvero “nessuno”, finché qualcuno decide di raccontarlo.
Con affetto letterario,
Daniela
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