Campania Libri Festival 2025: il segno che resta

Napoli, ottobre. Quando si richiudono le porte del Palazzo Reale, e nei corridoi rimangono solo i passi sordi degli ultimi addetti ai lavori, ci si accorge che i festival non si spengono mai del tutto. Si fanno eco. Traccia. Memoria attiva. Il Campania Libri Festival 2025, nel segno dei quattro, ha lasciato Napoli carica di parole ascoltate e parole da restituire.
E anche stavolta, non è stata solo la bellezza degli ospiti a renderlo memorabile, ma l’intelligenza di una macchina organizzativa invisibile che ne ha sorretto il battito.
L’identità di questo festival è figlia di una visione ampia e costante: quella di Ruggero Cappuccio, direttore artistico, che ha saputo armonizzare tensione letteraria e coscienza civile, portando con sé la complicità curatoriale di Massimo Adinolfi, filosofo e intellettuale raffinato.
La regia appartiene alla Fondazione Campania dei Festival, che ha saputo far confluire direzioni artistiche, logistica e comunicazione in un organismo coeso, dinamico, vivo. Un evento culturale così grande, disseminato tra la Biblioteca Nazionale e le sale storiche del Palazzo Reale, non esiste senza una squadra silenziosa che tiene insieme autori, pubblico, orari e visioni. E quest’anno, più che mai, ogni dettaglio è sembrato sintonizzato con l’idea che la cultura debba essere accessibile, condivisa, partecipata.
Tra gli incontri che hanno lasciato il segno, la presenza di Richard Ford è risuonata come un punto fermo: il Premio Pulitzer ha presentato Per sempre, il libro che chiude la saga di Frank Bascombe.
Un addio narrativo pronunciato con misura, in una lingua che tocca l’essenziale: la malattia, la perdita, la fragilità, ma anche l’amore che resiste, la cura che salva. Il pubblico ha ascoltato in silenzio, come se ognuno, in fondo, custodisse un suo Frank da lasciar andare.
Nel cuore del programma, la presentazione di Wanda Marasco ha rappresentato un altro momento di grande intensità. Il suo romanzo, vincitore del Premio Campiello, non ha avuto bisogno di proclami. È bastata la voce limpida dell’autrice, capace di restituire con precisione e sentimento un mondo antico stratificato, doloroso e necessario. Una voce autonoma, che ha trovato spazio pieno nella propria solitudine narrativa, fuori da panel tematici, senza bisogno di cornici.
Eppure, le cornici non sono mancate. Una di queste, fortissima, è stata il panel “Eretiche”, ideato da Cappuccio e curato da Cristina Marra. Non un semplice spazio femminile, ma un territorio aperto alla dissidenza intellettuale, esistenziale, politica. Qui le protagoniste hanno parlato di rottura, di scelta, di rinuncia e di desiderio. Un luogo in cui la parola ha preso forma come atto di resistenza, lontano dai formalismi e dentro la carne del presente.
La resistenza, però, ha preso anche altre forme. Come quella del noir, al centro di un percorso curato con attenzione da Giancarlo Piacci, che ha saputo portare in primo piano il giallo come dispositivo critico, come strumento per leggere le città, le colpe, le colpevoli omissioni.
Non è stato solo un omaggio al genere, ma una riflessione profonda sulla tensione morale che attraversa ogni vero noir: raccontare ciò che si tenta di nascondere, mostrare il confine sottile tra la giustizia e la sua rappresentazione.
In un festival così stratificato, non sono mancati gli attraversamenti più intimi, come quelli guidati da Emanuele Trevi, che ha presentato Mia nonna e il conte e ha poi condotto il pubblico in un’escursione letteraria dentro l’opera di Philip K. Dick. Una conferenza che ha reso vive le domande sulla realtà e sull’identità, con quel tono svagato e profondo che solo Trevi sa maneggiare.
Vittorio Del Tufo, invece, ha portato un’altra voce essenziale: quella del paesaggio scomparso. Il suo Fiume scomparso è diventato occasione per riflettere sulle stratificazioni urbane, sulle memorie che l’acqua trascina e restituisce. Accanto a lui, Raffaele Messina ha offerto il vento della storia con Vento giacobino, un romanzo che parla di rivoluzioni interiori prima ancora che politiche, e che intreccia idealismo e delusione con stile sobrio e potente.
Nei cortili e nelle sale più raccolte, i laboratori di Antonella Cilento hanno fatto da contrappunto silenzioso agli incontri pubblici. Pochi titoli, pochi riflettori, ma molto ascolto. Gli spazi di scrittura curati da Cilento hanno messo in movimento il pensiero creativo dei partecipanti, spingendoli a fare della parola una forma di azione. E proprio in questi laboratori si è respirato uno degli insegnamenti più forti del festival: che la letteratura non nasce dalla contemplazione, ma dal lavoro, dal corpo, dalla frizione con la realtà.
Alla sera, il Teatro di Corte si è fatto luogo scenico e poetico, grazie anche alla rassegna “L’arte per esistere o per resistere”, curata da Nadia Baldi. Gli spettacoli non sono stati intervalli, ma veri e propri momenti di sintesi: là dove la parola scritta trova corpo, gesto, eco visiva.
Un pubblico partecipe ha assistito a messe in scena che portavano con sé ironia, dolore, denuncia, e che ricordavano — con voce alta — che la cultura è anche luogo di lotta.
E poi la musica. Quella di Enzo Avitabile, che si è riversata sulle pietre antiche come preghiera ritmica, come invocazione urbana nella sua lezione musicale. E quella di Marco Zurzolo, che ha fatto del jazz un abbraccio al testo e ai suoi fantasmi.
Ora che tutto sembra tornare al silenzio, rimane una sensazione precisa: la necessità di eventi culturali di questo respiro nella città di Napoli e il Campania Libri Festival — con le sue stanze, i suoi volti, i suoi silenzi e le sue voci — quest’anno ci ha ricordato che esistere e resistere sono ancora verbi praticabili.
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