Annella di Massimo, la pittrice barocca che Napoli non ha mai dimenticato

di Daniela Marra
Napoli era una nave silenziosa ancorata al risveglio del giorno. Il cielo, basso e amaro, stringeva i campanili in una morsa d’ombra, mentre le strade, umide di pioggia e di sospensioni, riflettevano luci pigre e panni stesi che imploravano la brezza capricciosa.
Dietro un portone sabbioso, tra antiche mura accarezzate dal muschio, saliva una scala stretta fin dove il vento s’insinuava portando con sé i segreti del mare. Là, in una piccola stanza, viveva Annella, lenta come la goccia che scivola dal davanzale, mentre le prime luci infilano le dita nel buio. Il nome Diana, mille volte ignorato, abbandonato all’ombra. Era l’alba ed era già sera. La luce sembrava aver paura di entrare. Annella stava in piedi davanti a una tela immobile. Tutto attorno colori spenti, pennelli assopiti, telai che udivano il respiro della sua pena. Lei non parlava; la sua voce era fatta di creta e d’ombra, di tratti sottili e pallidi, di mani macchiate e tenere. Reggeva il pennello come volesse accarezzare il silenzio stesso. E i suoi occhi, sempre in attesa. Napoli, antica, ferita, luminosa, pareva svegliarsi per guardarla. E intanto lei, in quell’ora che sembrava l’ultima, continuava a disegnare aria, a far tremare ciò che ancora non esisteva. L’appartamento, incastrato tra le case, odorava di oli, sali e sogni pesanti. Dalla soglia, un rumore lontano di campane sollevava l’aria: non un canto, ma un richiamo antico. E Annella, come una sacerdotessa, chinò il capo. Non era certo quel suono a chiamarla, ma un mistero più intimo, un compito senza nome. Il cielo attorno si schiuse, per un tempo breve, quasi un taglio, e un raggio di sole cadde sulla tela. La pittora alzò gli occhi come se avesse visto qualcosa di vivo. Ma qualcosa che non poteva ancora nominare: una donna in silenzio, una memoria di bellezza degna di essere raccontata.
Era Diana de Rosa, figlia di pittori, allieva prediletta di Massimo Stanzione. Ma per Napoli tutta, era solo Annella. Annella di Massimo.
“Ella avea una grazia nel disegno così fine e rara, che pareva l’anima parlasse coi pennelli”
(Bernardo De Dominici, Vite de’ Pittori, Scultori, ed Architetti Napoletani, 1743)
Non parlava quasi mai mentre dipingeva. Le parole le scivolavano addosso come polvere, inutili. Solo il colore contava. Solo l’ombra dietro lo sguardo, la luce che tremava sulle guance della Madonna. Ogni pennellata era una carezza, ogni volto dipinto, un frammento di sé stessa.
Annella crebbe all’ombra di botteghe d’arte, un ambiente intriso di polveri, pigmenti e voci affaticate. Fu allevata da una madre vedova e da un patrigno, Filippo Vitale, che le insegnò il primo disegno. Poi la incontrò Massimo Stanzione e fu rivelazione. Lui la prese in bottega non solo come allieva, ma come testimone di bellezza. Le lasciava disegnare le mani, gli occhi, le pieghe delle vesti. Lei dipingeva come se volesse trattenere l’anima nelle cose, come se ogni pennellata fosse un pensiero che non si poteva dire ad alta voce.
“La sua mano rendeva sacro anche un volto profano”, dissero, e lei lavorava su cartoni, bozze di Stanzione, sul rosso scuro delle tavole, nel chiarore luminoso dei mezzibusti sacri.
“In un tempo che le donne sedevano a cucire o pregare, ella saliva i ponteggi delle chiese come gli uomini, e non per vanità, ma per vocazione.”
(Dal diario del canonico P. D’Aragona, 1640 ca.)
Napoli la guardava con occhi curiosi. Le donne del popolo la chiamavano “la pittora di Massimo”. Le monache, quando la vedevano salire le scale delle chiese per affrescare i soffitti, la seguivano con gli occhi pieni di preghiera. Le sue Madonne somigliavano a lei: dolci, assorte, ma con una malinconia che veniva da lontano. Era conosciuta per la compostezza, per una grazia che non chiedeva applausi. Non viveva tra corti o salotti, ma tra conventi e tavolozze. Le sue opere adornarono la Chiesa dei Turchini, Monteoliveto, e Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone. Molte sono perdute. Ma chi le vide, non dimenticò. I quadri che fece per la Pietà dei Turchini andarono perduti, caduti con il tetto durante un temporale feroce, un destino impietoso. E così fu anche per molte delle sue opere, inghiottite dal tempo e dal silenzio. Eppure chi le vide parlò di tenerezza e forza insieme, di santi che sembravano umani e di martiri che, sotto la sua mano, non erano più solo dolore, ma bellezza che consola.
Anche la sua di bellezza non passò inosservata. Diana aveva due sorelle, anch’esse belle e graziose. Le chiamavano le “Grazie” del quartiere. Ma a differenza delle sorelle, lei parlava poco e dipingeva molto. Preferiva il silenzio delle tele alla confusione delle feste. Sposò Agostino Beltrano, anche lui pittore, e per un po’ si credette felice. Ma la felicità delle donne come Annella è cosa fragile, come la foglia d’oro che si mette sulle aureole: brilla, ma si stacca al primo colpo d’aria. Vissero d’arte, forse d’intesa. Ma la leggenda, nera e teatrale, dice che egli, sospettoso e furente, l’abbia uccisa in un impeto di gelosia.
“Agostino, perduto per la furia, la ferì crudelmente… e la fe’ spirar la notte stessa.”
(De Dominici, 1743)
Eppure, negli archivi, non c’è pugnale. C’è malattia, stanchezza, un male lento. Diana morì nel dicembre del 1643, a quarantun anni, per un corpo che non restituiva più la fiamma e cedeva alla stanchezza. Era un dolore silenzioso, femminile, senza clamore. Fu una di quelle mattine morbide di dicembre, quando Napoli si sveglia fra l’odore d’incenso e la nebbia dei vicoli, che la graziosa pittrice Diana de Rosa, che tutti chiamavano con amore Annella, chiuse gli occhi per sempre. Non aveva che quarantun anni. L’atto di morte, secco e impersonale, la segnò come “pittora” e già questa parola per una donna era miracolo. Morì giovane, sì, ma non come dissero poi i biografi. Non per la gelosia d’un marito, non per la vendetta d’un amore. Morì di malattia, come tante donne forti che lottano ogni giorno in silenzio. E fu sepolta come artista, perché questo era: una creatura che aveva dato alla luce non figli, ma immagini sacre, volti di donna che pregavano in eterno.
Oggi di Annella restano poche cose: un quadro, forse due, un nome tra le righe dei critici, e un ricordo sottile come un velo d’altare. Ma per chi ama i segreti delle stanze antiche, per chi crede che la pittura sia anche una preghiera, lei è ancora lì. Con la veste impolverata, il pennello in mano, e negli occhi quella luce calma che solo le donne che hanno sofferto sanno tenere. Il suo stile è studiato con cura. Non il caravaggismo crudo del tempo, ma un barocco intimo, dolce, che piega la luce alla poesia. Alcuni studiosi ne hanno difeso l’autenticità, cercando di strappare le sue opere all’ombra di Stanzione. Una in particolare, Il Martirio di Sant’Agata, conserva la sua firma: “ADR”.
“Non si firma con il nome, ma con l’anima. E quell’anima, sì, era sua.”
(G. Bologna, Studi sul Seicento Napoletano, 1976)
Oggi il nome di Diana de Rosa torna nei libri, nei musei, nelle tesi di giovani studiose. Ma più ancora ritorna nei luoghi dove dipinse: nei frammenti di affreschi superstiti, negli archivi di Napoli, tra le righe di un tempo che volle cancellarla e non ci riuscì.
Nel cuore di Napoli, quando il sole si posa sui muri rossi delle chiese, è ancora possibile immaginare Annella che cammina tra le ombre. E se ascoltate bene, nel silenzio, forse sentirete il fruscio del suo grembiule, e il respiro lieve di chi ha amato l’arte come si ama una preghiera sussurrata.
“E come certe rose che fioriscono all’ombra, ella visse breve e silenziosa, ma lasciò il profumo.”
(Lettera anonima, archivio convento di Santa Chiara, 1650 ca.)


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